Una comunità nasce intorno a un luogo, a una lingua condivisa, a riti culturali più o meno cadenzati, ma anche grazie a leggende e racconti che passano di generazione in generazione e forgiano un passato comune nel quale riconoscersi. Spesso alcuni di questi elementi si dimostrano talmente radicati nell’identità degli individui da riuscire a resistere anche alla prova dello spazio o del tempo, come accade in occasione di migrazioni lunghe e destabilizzanti. Anzi, spesso è proprio ripetendo i riti con cui si è cresciuti che molti riescono a trovarsi a casa, anche lontani dal proprio Paese d’origine. Accade oggi e forse accadeva ancor di più in passato, quando migrare, trasferirsi, iniziare una nuova vita altrove, poteva significare non sentire mai più la voce della propria madre, rivedere i propri fratelli dopo decenni, venire a conoscenza di eventi importanti come nascite, matrimoni, morti solo tramite lettera, se qualcuno in famiglia aveva imparato a leggere e scrivere.
Accadeva anche agli italiani che migravano negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento, alla ricerca di un po’ di fortuna, o semplicemente di qualcosa di meglio di ciò che si erano lasciati alle spalle. Una volta arrivati ci si adattava a ciò che si trovava, tentando di ricostruire un ambiente famigliare, benché ci si trovasse dall’altra parte del mondo, creando nuovi legami con uomini e donne con cui si condivideva il Paese d’origine, parlando e cantando nella propria lingua madre, o riproponendo ricette e piatti famigliari.
Per cucinare però non bastano i ricordi e un po’ di nostalgia, servono gli ingredienti: sebbene allora non si parlasse ancora di materie prime e chilometro zero, almeno una confezione di pelati e una bottiglia d’olio d’oliva erano necessari, anche se made in Usa. Fu questa la scommessa sulla quale nel 1942 nacque l’azienda Progresso Italian Quality Food, fondata da Vincenzo Taormina e Giuseppe Uddo, nati in Italia ma incontratisi per la prima volta a New Orleans, Luisiana.
La Progresso – che esiste ancora – si specializzò sin da subito nella vendita di prodotti tipicamente italiani su suolo americano, rivolgendosi dunque principalmente alle comunità di italiani residenti in America e agli italoamericani. Commerciavano soprattutto prodotti in scatola come pelati, ma anche spaghetti, legumi e olio d’oliva, e lo facevano con strategie ben precise e un’idea di marketing estremamente moderna, che passava attraverso il mezzo più potente dell’epoca: la radio. Un mezzo popolare e apprezzatissimo anche in Italia, dove era ben più diffuso del telefono e probabilmente della stampa, vista la scarsa alfabetizzazione. E in America questo interesse fu rapidamente fatto fruttare attraverso la creazione di alcune emittenti italoamericane, come la Wov e la Whom, ideate proprio da italiani. Il palinsesto prevedeva tanti brani di musica italiana e alcuni programmi condotti da anchorman che parlavano in italiano.
L’idea che unì il destino della Progresso a quello della radiofonia italoamericana fu quella di un programma di fidelizzazione degli acquirenti: chi comprava un numero sufficiente di prodotti Progresso e ne inviava le etichette all’azienda avrebbe potuto partecipare a un programma radiofonico unico nel suo genere, che prometteva di far ascoltare le voci dei propri parenti rimasti in Italia. Il programma si chiamava “La grande famiglia” e andò in onda dal 1948 al 1961 con la conduzione di Giuliano Gerbi, giornalista capace e intraprendente a cui si deve buona parte del successo del programma. Infatti condurre “La grande famiglia” significava realizzare il fine ultimo del programma: recarsi nelle città e soprattutto nei paesi d’origine degli acquirenti di Progresso e intervistarne i parenti, raccolti per l’occasione intorno a un microfono, poi montare le puntate e assicurarsi la loro messa in onda.
Da questa storia incredibile inizia il racconto di Cristiano Barducci, audio-documentarista bolognese e autore de “La grande famiglia”, una serie podcast prodotta da Rai Play Sound e pubblicata gratuitamente tra il 16 dicembre e il 13 gennaio su Rai Play Sound e dal 16 gennaio anche su Spotify. La serie non solo racconta la storia dell’omonimo programma radiofonico, che ha accompagnato le vite degli italiani emigrati negli Stati Uniti per oltre un decennio, e di Gerbi, l’uomo che l’ha reso possibile, ma si mette alla ricerca delle storie di coloro che hanno fatto parte del programma, anche solo per un episodio.
L’esito è un mosaico di voci raccolte in sei episodi che dipingono un ritratto polifonico degli italiani di allora: di chi partiva e perché, di chi restava, e di chi se ne andava e poi tornava. Padri e figlie che si mandano messaggi in codice usando l’inglese, madri che si preoccupano perché i figli non si fanno più sentire, e poi neonati, zie, nonne. Figure lontane nel tempo ma che non si fatica a riconoscere come famigliari, anche grazie al racconto estremamente rispettoso che ne fa Barducci.
Si è trattato, ci spiega sempre Barducci, soprattutto di un grande lavoro di indagine, impreziosito dal supporto umano e professionale di Joseph Sciorra (figura la cui bellezza ci impone di non fare spoiler ma rimandarvi direttamente al secondo episodio), ma che ha anche beneficiato di uno straordinario meccanismo di passaparola.
Infatti tutto ha inizio quando, ormai tre anni fa, dopo aver letto la storia di Gerbi e del suo programma, Barducci decide di provare a rintracciarne le voci, e poi chissà, magari anche gli stessi protagonisti, o i loro eredi, ma per farlo gli servono le registrazioni dei programmi. Scopre così che chi partecipava, pagando una piccola somma extra, poteva ricevere anche un disco con la registrazione delle voci dei parenti andate in onda. A questo punto, intuisce che se “La grande famiglia” è andato in onda per anni, più volte al giorno, i dischi potenzialmente ancora in circolazione potrebbero essere ancora numerosi.
Alla fine ne trova sei, alcuni grazie all’incredibile lavoro di Sciorra (sempre secondo episodio), altri grazie a eBay, alcuni grazie ad amici, conoscenti e conoscenti di conoscenti che ampliano il raggio della sua ricerca parlando di lui e del suo progetto. La rete si fa così estesa che a volte Barducci si ritrova a far ascoltare quei dischi americani a famiglie italiane che non avevano idea di cosa contenessero, permettendo loro di riascoltare le voci di parenti ormai invecchiati o mancati, e restituendogli una piccola parte di storia famigliare.
Tra nenie antiche, maledizioni lanciate agli uomini fuggiti in America, Cary Grant, vinili di musica italiana, e l’odore del pesce che si attacca ai vestiti, “La grande famiglia” è un racconto corale in cui la storia del marketing e del cibo si intreccia a quella di singoli individui sperduti e coraggiosi, e quasi sembra di sentire, costante, in sottofondo, il suono dei pelati Progresso che sfrigolano sui fornelli degli italiani d’America.
E voi siete sicuri di non avere un vinile sconosciuto in cantina?