«Vi ricordate quando potevano uscire alla televisione le sceme?». Lo disse Checco Zalone al Sanremo di tre anni fa, quello in cui le donne mica erano vallette, portavano tutte il loro trauma, il loro contenuto, il loro oltre-le-gambe-c’è-di-più. Naturalmente era più femminista la battuta di Zalone che le vallette contenutiste.
«A fine estate, tornata da Riccione, mi faccio le mèches. Quel biondo mi trasforma. Al bar chiedo un cappuccino, e il barista risponde “subito, signorina”. Rifletto che può essere un modo per sopravvivere: al ristorante, al cinema le donne non pagano, ovunque gli uomini pagano per loro. Il mio è un calcolo. Come uomo non ce l’avrei mai fatta, misure scarse. Essere donna è stato più un escamotage per farcela che una vocazione». Lo dice Eva Robin’s intervistata da Teresa Ciabatti, Eva Robin’s che se nel Novecento eravate vivi sapete chi sia e sennò andate a studiare, e non è sorprendente che sia più femminista Eva Robin’s che dice che farsi donna è stato un calcolo di quanto lo sia “Diamanti”.
Prima di arrivare al nuovo film di Ferzan Özpetek, che è uscito prima di Natale e ha abbondantemente superato i dodici milioni di euro, bisogna che io vi confessi la mia incomprensione per una fissazione del genere femminile, che è quella che la misoginia sia un problema maschile. Che a odiare le donne, a essere sessisti, a essere gente da cui guardarsi siano i maschi che maschi nascono e maschi restano.
Sì, ce n’è qualcuno che maltratta le fidanzate o le mogli, e non credo di dover rimarcare che ciò è inaccettabile, non credo di doverlo specificare neppure in questo secolo bisognoso di sottolineature dell’ovvio. Ma non penso esista un maschio etero neanche dei più zotici, dei più prepotenti, dei più inattrezzati, che riesca a essere misogino con la tenacia e la naturalezza con cui lo sono i maschi omosessuali e le donne d’ogni vocazione.
Nadia Terranova, in un’intervista per promuovere il suo nuovo libro, ha detto che le pare misogino ridere dei gruppi di mamme su WhatsApp, perché non crede che nei gruppi di maschi a tema calcetto si parli di Kierkegaard. Non ne dubito. Credo però che, se io prendessi per il culo i gruppi a tema calcetto, nessuno mi direbbe che odio gli uomini: nessuno me l’ha detto nessuna delle mille volte in cui ho scritto quanto disprezzo i tifosi di calcio (tra l’altro se mi procurate l’accesso a un gruppo su Kierkegaard lo prendo per il culo persino più volentieri di quelli di mamme, sebbene tema che Kierkegaard sia meno nello Zeitgeist della mistica della maternità).
Quello che caratterizza i gruppi di mamme sui social (e la ragione per cui vien facile prenderli per il culo) è che si prendono terribilmente sul serio, pensano che essere madri significhi qualcosa: chiunque creda in qualcosa fa ridere. Dicono cose come «noi siamo mamme, possiamo tutto», che somiglia assai a «Questo siamo noi: diamanti», che è una frase di “Diamanti”, un film che finge fortissimo di credere che essere donne significhi qualcosa. “Diamanti” l’hanno scritto le categorie che più rappresentano un problema per l’emancipazione femminile: due donne, e un maschio omosessuale.
Tralascerò la parte di “Diamanti” che crede d’essere “Effetto notte”, quella in cui Ferzan riunisce le sue attrici e Jasmine sboccia una sciampagna che per quanto schiuma dev’essere tiepida, e Geppi dice «questo vaginodromo», e Elena Sofia ha un’amica malata e non può fare il film, e Mara serve le lasagne, e insomma sembra di stare a “Lol”.
Verrei invece alla storia che ci dovrebbe raccontare questo “C’è ancora domani” dei busoni, che è la storia d’una sartoria negli anni Settanta, che si capiscono essere gli anni Settanta dalle tappezzerie, e dalle canzoni fine anni Sessanta (che fanno pensare di continuo a «Tu sei per la Mina o per la Patty?», che è una battuta del secolo scorso ma è più contemporanea di “Diamanti”), e da qualcuna che dice che Balenciaga potrebbe aiutarle ma è morto (era perfetto, ma è morto: non è buon segno, per la tenuta del pathos d’un mélo, che vengano in mente solo battute di autori satirici del Novecento).
Dunque in questa sartoria della Roma degli anni Settanta, in piena emancipazione femminile, arriva una costumista che ha vinto l’Oscar, annunciata come «una iena», che presto scopriremo essere forte con le sartine e debole col regista, che di Oscar ne ha due e fa una piazzata dopo la quale lei, tremebonda, spiega alle sarte che ha la sindrome dell’impostore.
Non la chiama «sindrome dell’impostore» perché la sceneggiatura non è lessicalmente così indecente, ma quella è: lei che vince l’Oscar e pensa di non valere comunque niente e che ora tutti se ne accorgeranno. Solo che è fuori dal tempo perché non è che questo secolo abbia inventato solo la definizione: ha proprio inventato la stronzata di dirsi convinte di non valere a dispetto dei riconoscimenti, in una repubblica fondata sulla mitomania.
(Non sta bene ridere di fronte ai mélo, ma è impossibile non ridere quando, dopo innumerevoli crisi isteriche, ripensamenti, ragazzine che passavano di lì e si scoprono geni della sartoria, il vestito che sfoderano per il film pieno di premi Oscar è una copia conforme d’un Piccioli arancione che sfilò per Valentino nel 2019 e che pareva fatto apposta per fare i meme, essendo arancione e bucherellato come quelle decorazioni che a Roma delimitano le buche. E comunque: quasi tredici milioni, io rido delle buche sui marciapiedi e Özpetek ride fino in banca).
Il tempo non esiste, nel secolo in cui tutti hanno nostalgia e nessuno ha memoria, e quindi negli anni Settanta di Özpetek c’è pure l’hikikomori, il figlio d’una sarta che non esce dalla sua stanza, perché un adolescente problematico di cinquant’anni fa mica lo fai eroinomane, macché: lo fai chiuso in cameretta, quarant’anni prima del wifi.
Il tempo non esiste nelle abitudini, quindi abbiamo anche quella menata dal marito perché è cattivo il risotto che gli ha preparato. Perché in quale casa della classe operaia romana cinquant’anni fa non si cucinava un risottino, quando la sera si tornava dal lavoro.
Non esiste il tempo, non esistono le abitudini culinarie, non esiste la biologia. E quindi la nostra eroina il marito violento non osa contraddirlo, né osa andarsene di casa, né osa ribellarsi. Le altre sarte le dicono lo ammazziamo noi e poi dici che è andato a prendere le sigarette, «siamo come le formiche noi, sembra che non contiamo niente ma tutte insieme lo possiamo fare fuori» (le formiche, i diamanti, i gruppi di mamme su Facebook).
E lei, che come quelle senza problemi veri aveva solo bisogno del discorsetto motivazionale, una sera sotto la pioggia, una sera in cui lui sta per buttarla nel pozzo in giardino come sempre la minacciava di fare, non le chiama, non ha bisogno d’aiuto, è improvvisamente, nel mondo senza biologia, più forte d’un maschio che l’ha sempre menata, e nel pozzo ce lo butta lei: così, come fai strike per botta di culo al bowling. D’altronde mica ne aveva il terrore perché lui era fisicamente più forte: era perché il giogo d’un patriarcato ideale premeva su di lei, e ora se n’è liberata. La violenza del più forte sulla più debole mica era una vocazione: era un escamotage.
“Diamanti” non ha paura di citare, e il mio contorcimento preferito è quando una citazione di “Mad Men” diventa una citazione di “Candy Candy”. La cattivissima padrona della sartoria ingiunge a una sartina che non può permettersi la mensa scolastica di non portare più il figlio al lavoro (come in “Mad Men”), poi diventa buonissima e continuando a simulare malvagità le regala dei soldi fingendo di non regalarglieli, in modo che lei possa mandare il figlio a scuola invece di tenerlo in mezzo ai bottoni e alle stoffe. È perché la sceneggiatura è così misogina da non dare alle donne dignità d’essere personaggi davvero stronzi come i capuffici (maschi) di “Mad Men”?
Mannò, come fate a non capire: è perché l’amante che aveva mollato a Parigi la proprietaria della sartoria, spezzandole il cuore e rendendola malvagia («il mio cuore ha smesso di aspettare», scrive la sceneggiatura ben sapendo che in platea ci saranno cinquantenni che dentro ne hanno quindici e sospireranno: anche il mio, anche il mio), quel tizio lì in realtà la ama, ma la fidanzata che stava giusto quel giorno lasciando per lei aveva avuto un incidente ed era rimasta paralizzata. Come Susanna, con cui Terence si sacrifica a rimanere – giacché un uomo decente non molla una paralitica – pur amando davvero Candy. A Natale gli italiani sono andati al cinema a vedere “Candy Candy”. È comunque meglio che se fossero andati a vedere Angelo Duro.