Il ritorno del reL’agenda Trump potrebbe essere limitata da Congresso e Corte Suprema (e dal suo stesso partito)

Il secondo mandato del presidente degli Stati Uniti alla Casa Bianca sarà segnato da complicate sfide interne ai repubblicani e possibili (ma non certi) contrappesi giudiziari e legislativi. Camera e Senato si scontrano già sul primo possibile disegno di legge della sua amministrazione

LaPresse

Tra due giorni Donald Trump presterà giuramento come quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti, e le sue dichiarazioni lasciano presagire un mandato caratterizzato da profonde trasformazioni. O meglio,  restaurazioni. Ma avrà l’appoggio del Partito Repubblicano? E come funzionerà il classico sistema americano di pesi e contrappesi? Il secondo mandato presidenziale si sta già infatti preannunciando come una corsa a ostacoli senza precedenti, tra le turbolenze di un Congresso diviso, le resistenze della Corte Suprema e un partito Repubblicano tutt’altro che compatto. La tensione istituzionale è alta, come spiegano The Economist e il New York Times, e si vedono già divergenze strategiche tra i leader del Senato e della Camera. Intanto alleati consolidati si rivelano riluttanti ai suoi ordini, e gli oppositori sempre più determinati a bloccare la sua agenda politica.

Innanzitutto ci sono le tensioni tra il Presidente della Camera Mike Johnson e il leader della maggioranza al Senato John Thune che mettono gravemente a rischio una buona partenza per il nuovo mandato. I due leader repubblicani sono divisi su questioni strategiche fondamentali, come la gestione delle priorità legislative e del nuovo disegno di legge sul bilancio: se Johnson punta infatti su «un’unica legge comprensiva che includa sicurezza delle frontiere, energia e tagli fiscali», Thune sostiene un approccio più frammentato. Trump, anche se è aperto a «idee alternative», sembra essere per un solo singolo disegno che affronti in un colpo solo molte delle sue priorità legislative. Ma la mancanza di una presa di decisione e di una collaborazione efficace tra Camera e Senato, aggravata da differenze di stile e strategia, oltre a causare ritardi nell’avvio delle proposte chiave, alimenta forti dubbi sulla capacità del Partito Repubblicano di presentarsi con un fronte unito. Ciò risulta particolarmente vero data «la riluttanza del Presidente a fare da arbitro tra le camere».

Nel corso del suo primo mandato, Trump aveva già dovuto fare i conti con ostacoli istituzionali. Ad esempio, sue vecchie promesse come l’abrogazione dell’Obamacare erano naufragate all’ultimo minuto, anche per mano di figure iconiche dello stesso partito, come John McCain. Anche il tentativo di ritirare tutte le truppe americane dall’Afghanistan era stato frenato dai vertici della sicurezza nazionale da lui stesso nominati. E nonostante i numerosi giudici conservatori che ha portato alla magistratura, molti tribunali hanno bloccato iniziative chiave della sua amministrazione, rappresentando uno degli ostacoli più significativi per la sua amministrazione.

La Corte Suprema aveva bloccato il tentativo di cancellare un programma che proteggeva dall’espulsione «settecento mila immigrati arrivati negli Stati Uniti da bambini», e aveva impedito l’aggiunta di una domanda sulla cittadinanza al censimento del 2020. Erano state quindi respinte numerose altre proposte: «un bilancio di duecentoquarantasei iniziative contestate legalmente: l’amministrazione ha prevalso solo in cinquantaquattro casi, ritirando o perdendo le altre centonovantadue». Si era fatto poco e nulla, quindi. E queste settimane non sembrano annunciare niente di diverso.

La Corte Suprema, che si è solitamente espressa con un rapporto di sei-tre a favore dei conservatori, il 9 gennaio ha scelto di non bloccare la condanna di Trump da parte di un tribunale di New York per la falsificazione di documenti aziendali. Infatti, secondo Ilya Shapiro del Manhattan Institute, l’influenza dei tribunali in questo mandato dipenderà dalla «questione specifica», ed è improbabile che il nuovo Presidente riuscirà ad «aggirare o indebolire leggi a lui sgradite». E soprattutto, certi suoi piani inequivocabilmente incostituzionali, come il rifiuto della cittadinanza americana ai bambini nati negli Stati Uniti da immigrati illegali, sembra verranno «sicuramente respinti», dice l’Economist.

Poi c’è il Congresso, da cui molte delle promesse di Trump dipendono. I repubblicani controllano il Senato con una leggera maggioranza (cinquantatré seggi su cento), ma questo non lascia spazio a più di tre defezioni per far passare qualsiasi provvedimento, assumendo che i Democratici restino compatti. Alla Camera dei Rappresentanti la situazione è ancora più precaria: con una maggioranza di soli due seggi – la più ristretta dagli anni Trenta del secolo scorso – ogni votazione rischia di trasformarsi in una sfida imprevedibile. 

A complicare ulteriormente le cose, Trump ha nominato tre deputati repubblicani a incarichi nel suo governo, riducendo ulteriormente il margine di controllo del partito fino a quando non saranno tenute elezioni suppletive per colmare i seggi vacanti. Questi numeri ridotti espongono quindi il Presidente a forti pressioni sia dall’ala moderata che da quella più radicale del suo partito. E non finisce qui.

Alla Camera, l’ala più estremista e ancora più a destra del Partito Repubblicano, rappresentata dal Freedom Caucus, si sta già rivelando un ostacolo niente male, forse anche più dei moderati, spiega l’Economist. Questo gruppo, noto per il suo rigido conservatorismo fiscale, ha già manifestato dissenso rispetto alle politiche di spesa di Trump, come durante i negoziati sul tetto del debito federale. L’approccio del Presidente, spesso poco attento alla disciplina di bilancio, contrasterebbe molto con i loro desideri, rendendo probabili ulteriori scontri interni se non si riuscisse a trovare un’intesa. 

Tra gli obiettivi principali c’è infatti l’estensione dei tagli di tasse approvati nel 2017, che avrebbero un costo di cinquemila miliardi di dollari in dieci anni. Tuttavia, considerando che alcuni membri del Congresso mirano a rivedere o eliminare elementi della legge fiscale del 2017, il piano non sembra reggersi, e ci saranno compromessi. Se pensiamo inoltre alla presenza di figure moderate come le senatrici Susan Collins e Lisa Murkowski – che hanno votato contro la nomina di Pete Hegseth come segretario alla Difesa – capiamo come la frattura sia molto attiva e preoccupante. Per Trump almeno.

Pure il governatore della Florida Ron DeSantis, tra l’altro sotto accusa dall’Unione per le libertà civili americane (Aclu) per non aver adempiuto al suo obbligo di convocare elezioni speciali per due seggi nella Camera dei deputati e nel Senato dello stato, si è aggiunto recentemente a questa baraonda insistendo affinché lo Stato approvi nuove leggi per combattere l’immigrazione clandestina al più presto, anche contro il volere di altri leader repubblicani, più reticenti a fare qualcosa fino alla sessione regolare che inizierà a marzo.

Fortunatamente, la struttura del sistema politico americano è progettata per impedire un controllo totale da parte di una singola figura o istituzione. Anche per un presidente polarizzante come Trump, il percorso è quindi irto di ostacoli, non solo da parte degli oppositori ideologici, ma anche degli alleati nominali. Come riportato dal New York Times, l’imprevedibilità del presidente, che spesso cambia idea influenzato dalla televisione o dall’ultimo che incontra, crea inoltre ulteriore incertezza tra i gli eletti repubblicani, che non sanno mai se aspettarsi il suo sostegno o una critica feroce. 

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