L’insediamento di Donald Trump è stato una dichiarazione d’intenti fin troppo esplicita nei modi e nelle parole. Le aspettative della vigilia su un discorso unificante e dai toni pacati sono state nettamente deluse. Non solo. Si è trattato anche di una sua visione del mondo, una sorta di compendio sulla politica estera che intende perseguire nel prossimo quadriennio. Nei quasi trenta minuti della sua prolusione, alla presenza anche di alcuni leader stranieri come la premier italiana Giorgia Meloni, il presidente argentino Javier Milei e l’omologo ecuadoriano Daniel Noboa (si è notata la presenza anche di un premier in pensione come il britannico Boris Johnson), Trump ha fatto capire come vede il mondo.
In estrema sintesi: il mondo è un territorio dove si può espandere l’influenza americana. Nel caso del Canale di Panama, anche fisicamente, da riprendere in qualche modo, rigettando il trattato firmato da Jimmy Carter nel 1978. Un mondo visto come ostile, che manda in America criminali provenienti «dalle prigioni e dai centri di salute mentale», che si è «preso gioco dell’America» e anche i soldi «per difendere i suoi confini» mentre i nostri «venivano abbandonati», chiaro riferimento alla guerra in Ucraina.
E allora ecco una “Golden Age” per restaurare la perduta grandezza dell’America rispolverando tutto l’arsenale ideologico reazionario, che comprende della chiusura delle frontiere. Si rispolvera persino una legge del 1798, l’Alien Enemies Act, che all’origine serviva per deportare eventuali spie britanniche o francesi e che è stato usato nella storia per arrestare i cittadini di altre nazioni nemiche: i maschi tedeschi nel 1918 sotto la presidenza di Woodrow Wilson e i giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, anche qui sotto il democratico Franklin Delano Roosevelt. Il primo a estenderla a chi proveniva dall’America Latina però è stato il democratico Harry Truman l’8 settembre 1945, a guerra appena conclusa. Oggi Trump promette di seguire la falsariga di Truman per sconfiggere le «gang straniere».
Anche quando parla di un dettaglio di politica interna quasi insignificante, come il rinominare il monte Denali in Alaska come Monte McKinley, dicendo che William McKinley è stato un presidente che ha fatto «ricca l’America anche usando i dazi», proprio come intende fare lui per estrarre «da fonti straniere un’inimmaginabile quantità di denaro da destinare al Tesoro degli Stati Uniti».
Una visione economica assai distorta che però evoca un passato che Trump ha sempre detto di rimpiangere sin dalla sua intervista concessa a un documentario di History Channel del 2012 intitolato “Gli uomini che fecero l’America”, dedicato a quei magnati di fine Ottocento che si fecero strada in modo più o meno legale creando monopoli di fatto. Due esempi tra tutti: John D. Rockefeller con la Standard Oil per il petrolio e Andrew Carnegie con la Carnegie Steel per l’acciaio. Una nazione che proteggeva le sue industrie con barriere doganali altissime e guardava con indifferenza al destino degli afroamericani che vedevano i loro diritti civili spazzati via negli Stati del Sud e che occupava le ultime terre lasciate libere dai nativi americani. Un Paese che aveva poca coscienza razziale ma anche sociale, dove i sindacati erano perseguitati anche con l’uso di vigilantes privati ingaggiati dalle aziende, e che vedeva il mondo come un territorio da annettere e mettere sotto la propria sfera d’influenza. Anche se non è stata citata esplicitamente, la Groenlandia è il territorio su cui Trump progetta di «espandersi», come detto poco prima di lanciare la prima spedizione umana su Marte. Se non sarà annessione, sarà una sorta di “protezione” come quella garantita a Cuba prima della rivoluzione castrista.
Infine, se da certe guerre bisogna stare fuori (e ancora una volta il pensiero corre all’Ucraina invasa), in altre bisogna entrare: come quella contro i cartelli della droga messicani che verranno definiti come “organizzazioni terroristiche”. L’esercito e le altre forze armate verranno poi impiegati nell’emergenza dichiarata al confine meridionale.
Tra i modelli ci sarebbe anche il sé stesso di quattro anni fa, ovviamente, e allora ecco che viene ripristinata anche la norma denominata “Resta in Messico”, destinata a quei richiedenti asilo provenienti dall’America Latina nel suo primo mandato. Eccoci, dunque, all’apogeo della Storia americana, rappresentata dall’uomo «salvato da Dio» lo scorso 13 luglio da un tentativo di omicidio. Decisione che sarebbe stata presa dall’Altissimo proprio con questo scopo, per porre, ancora una volta, l’America First in cima all’agenda statunitense. Stavolta però meglio. E in un certo qual modo forse agli occhi del Trump quarantasettesimo presidente certe moderazioni del Trump quarantacinquesimo, in carica dal 2017 al 2021, appaiono oggi inaccettabili, degne di un “Rino” (un Repubblicano solo di nome, Republican in name only).
Anche se ormai non è più chiaro cosa possa essere un Repubblicano oggi, se non una persona totalmente prona al suo volere e al suo sogno imperialista con tratti apertamente assurdi ma che catturano l’immaginario di un elettorato che lo vede come il Salvatore da una realtà ormai troppo complessa da capire. Ora ci pensa Donald. E lo farà anche per i suoi alleati, che, se vorranno rimanere in buoni rapporti dovranno fare a loro volta gli interessi dell’America. A ogni costo.