“A Complete Unknown”, nuovo biopic sugli esordi di Bob Dylan diretto da James Mangold, è soprattutto un formidabile veicolo di affermazione definitiva del più brillante attore della nuova generazione, il ventinovenne newyorkese con passaporto francese Timothée Chalamet. La sua interpretazione, perfino nelle esagerate caratterizzazioni e nei passaggi di gigionismo, gode di una magnifica energia e irradia fascino e suggestione. Che l’Oscar sia con lui, ci auguriamo. E che altrettante lodi raggiungano il resto del disciplinato cast che tiene in piedi la messinscena, un magnifico Edward Norton nella parte di Pete Seeger, Elle Fanning che fa Sylvie Russo, alter ego di Suzie Rotolo, la fidanzata storica di Dylan, della quale l’artista non ha voluto consegnare la memoria al tritacarne della promozione cinematografica, e Monica Barbaro, che dà all’interpretazione di Joan Baez la carismatica purezza vocale e l’inconsapevolezza con cui vide caricare la propria musica di significati oltre le sue intenzioni. Quindi un cast memorabile, che costituisce il merito del regista dell’operazione, un professionista esperto nel genere, dopo aver diretto, su registri assonanti, “Walk The Line”, biopic su Johnny Cash.
Oltre questo, resta il versante opaco dell’operazione, che la consegna al ricettacolo nel quale giacciono altri biopic musicali accomunati dallo stesso spirito – pensiamo ad esempio a “Bohemian Rhapsody” che racconta l’epica di Freddie Mercury, o a “Rocketman”, dedicato alla vita e alla musica di Elton John. Il peccato originale di questi lavori è lo stesso, e assume una dimensione ancora più ambigua allorché investe una figura complessa e contraddittoria come il grande iconoclasta Bob Dylan: in sostanza, di questi artisti viene sempre raccontata una vicenda addomesticata, fingendo sia quella vera.
È l’arroganza di Hollywood e il suo modo di usare protagonisti e meccanismi della celebrità a proprio uso e consumo, adattandoli alla metrica e ai movimenti della sua sinfonia. Mangold, presentando il film, ha provato a rovesciare il problema: secondo lui non è mai esistita una soddisfacente biografia di un personaggio sfuggente come Dylan, perché tutti, critici o documentaristi, non hanno mai saputo resistere al desiderio di raccontare, insinuandosi nelle spire dell’artista, la propria storia. Tutti piegandola ai propri desideri. Perciò lui si è sentito intitolato a fare lo stesso, e a romanzare episodi, inventarne altri, utilizzare strumentalmente figure reali modellandone i caratteri, allo scopo di generare emozioni e confezionare un film in adesione alla regola del cinema mainstream.
Sarà che Dylan non ha mai smesso di essere materia radioattiva, ma applicare questi principi alla sua storia provoca effetti disturbanti: la banalità dello script di “A Complete Unknown” e dell’anedottica a margine secondo la quale Dylan avrebbe “tollerato” questa versione dei fatti che riguardano uno che gli somiglia – come ha fatto sapere, non nascondendo il piacere di vedersi rivivere con la fisicità benedetta di Chalamet – producono una messinscena che ha il sapore acido di una versione generata dall’intelligenza artificiale: ecco il Dylan miserabile e ambizioso che sbarca a New York City e ostenta umiltà ma cova sogni grandiosi; il Dylan che usa le persone a proprio uso e consumo; il Dylan che sfonda per l’inevitabilità del suo talento e si riveste della spietatezza della star, assumendone i tratti distanti e arroganti. E tutto attorno il coro delle figure, condannate dalla scrittura di Mangold a fare, a ogni apparizione, sempre lo stesso gesto: Seeger è il buon moralista in odore di good old America, Sylvia-Suzie è l’eterna abbandonata, Baez è la cantante che non sa scrivere, Leonard è il manager viscido e affarista, Neuwirth il compagno di bisbocce. Dylan finisce tutto dentro i suoi occhiali neri, la sua moto cool, i capelli che sprizzano prepotenza giovanile. Attorno la leggendaria New York del Village, dove tutto è ancora innocente, impegnato e la politica costituisce il dettato comune.
L’effetto delle due ore e mezzo in cui guardiamo inquadrature di persone che, sorridendo beatamente, guardano Dylan esibirsi, per poi esprimere stupore davanti al suo genio, anche se lo odiavano pochi secondi prima, è di fastidiosa superficialità.
In ogni caso il culmine drammaturgico della vicenda sta nella famosa conversione di Dylan al suono elettrico, in occasione del Festival di Newport del ’65, in verità una trasformazione complicata ma necessaria per un musicista che già da ragazzino sognava di suonare nella band di Little Richard. Ma l’unico modo in cui Mangold affronta la questione è mettendo in scena la pazzia del suo pigmalione Pete Seeger che, di fronte al Dylan che abiura al folk, fissa rabbiosamente un’ascia, senza rivelarci se pensi di tagliare i cavi del suo amplificatore o di fare a fette lo stesso Dylan.
“A Complete Unknown” si limita a celebrare la mistica di Dylan, filtrata attraverso il richiamo così XXI secolo dell’idolo Chalamet, senza mai entrare in relazione con la complessità dell’artista e della sua produzione. Una ricostruzione semplificata che nemmeno avvicina il valore della documentaristica che Martin Scorsese ha dedicato a Dylan, o il ritratto cubista che ne ha fatto Todd Haynes in “I’m Not There”. “A Complete Unknown” è solo un film dai toni realistici nella quale avvengono fatti mai avvenuti, perché il farli avvenire mette le cose nel modo migliore per edificare una favola cinematografica pacificante e generalista.