La democrazia in Russia non c’è. Attenzione, i crescenti rimbrotti bushiani all’amico Vladimir Putin per lo stato della democrazia nel suo paese, e per l’influenza nefasta sulle nazioni vicine, non sono affatto estemporanei, piuttosto nascono da una approfondita analisi dei formidabili centri studi di Washington. Fin qui è rimasto tutto sotto traccia, come l’unico lascito realista nella politica estera americana trasformata, dall’attacco subito l’11 settembre, in un idealismo "aggredito dalla realtà", come direbbe il padrino dei neoconservatori, Irving Kristol. Ieri, in Slovacchia, Bush ha parlato di rivoluzione democratica all’est, di nuovo 1989, di un altro muro che cade nel mondo delle ex Repubbliche sovietiche, della democrazia in Georgia e in Ucraina e della speranza in Moldova e in Bielorussia. Ma questa è la fondamentale novità del secondo mandato di Bush, al punto che la conferenza stampa congiunta Bush-Putin di ieri ha affrontato quasi esclusivamente questa preoccupazione.
Nel primo quadriennio di Bush, invece, gli Stati Uniti hanno considerato la relazione con Mosca troppo importante per la sicurezza dell’America e per la lotta al terrorismo internazionale, al punto da evitare di contestare a Putin le violazioni della democrazia, della libertà e dei diritti umani in Russia. Giusta o sbagliata che fosse la realpolitik americana rispetto all’Orso russo, quella politica rendeva poco credibile il grande progetto di democrazia globale delineato da Bush nel suo discorso di inaugurazione del secondo mandato. Un presidente che parla di libertà, ma tace sulle sue reali restrizioni in Russia si dota di un’arma di pressione spuntata. Tanto più che la retorica pro-democratica di Bush ora non si limita più all’Iraq, all’Afghanistan, alla Siria e all’Iran, ma si è allargata fino a comprendere i regimi "amici" come l’Arabia Saudita e l’Egitto, paesi che mai prima d’ora erano stati sfiorati da pubbliche critiche americane e invocazioni alla riforma.
La punta dell’iceberg della nuova consapevolezza di Washington è costituita dalle parole pronunciate da George Bush nel suo viaggio europeo, ma anche dalla contemporanea iniziativa parlamentare bipartisan avviata dai senatori John McCain e Joe Lieberman. I due autorevoli parlamentari, insieme con altri colleghi repubblicani e democratici, hanno promosso un’iniziativa volta a sospendere la Russia dal G8, proprio a causa dell’arretramento degli spazi di libertà nell’ex Unione Sovietica. Un’idea che ieri è stata bocciata, sul New York Times, dall’ex vicesegretario di Stato, Strobe Talbott, oggi presidente della Brookings Institution. Secondo Talbott, è vero che i membri del G8 dovrebbero condividere un impegno al multipartitismo, alla democrazia, allo Stato di diritto, alla libertà di stampa e alla protezione dei diritti civili e umani; ed è certamente vero che la gestione Putin "ha pregiudicato l’appartenenza della Russia a questo club", ma la minaccia di sospendere e magari espellere la Russia dal G8 potrebbe peggiorare la situazione, consegnare il paese alle forze nazionaliste e quindi far perdere all’occidente democratico un’opportunità per indirizzare Mosca sulla retta via. Talbott, piuttosto, propone di utilizzare la riunione del G8 che si terrà nell’estate del 2006 a San Pietroburgo. Putin non vorrà sciupare quell’occasione e certamente non potrà permettersi che gli altri sette paesi esprimano pubblicamente il proprio disappunto sulla situazione in Russia. Così, secondo Talbott, sarà lo stesso Putin a cambiare l’attuale rotta. Nello sconvolgimento dei ruoli causato dall’11 settembre, è la conferma che i realisti stanno a sinistra, non più a destra. Ma in questo caso, così come sull’Iraq e in medio oriente, più che realpolitik sembra che i liberal americani, e di riflesso anche quelli europei continentali, non sappiano fornire altra soluzione se non quella di aspettare, conservare lo status quo e sperare nelle buone intenzioni dell’interlocutore.
Dall’altra parte, invece, specie sul fronte neocon (ma non solo), si rafforza il credo neoidealista ed esportatore della democrazia. Alla base c’è il discorso contro la tirannia pronunciato da Bush il 20 gennaio. Accanto alla risoluzione McCain-Lieberman, c’è anche un appello firmato da autorevoli personalità indipendenti che chiedono a Bush un cambiamento radicale della politica nei confronti di Putin. Poi ci sono i documenti e le analisi dei centri studi, a cominciare dal rapporto di Freedom House, l’organizzazione che valuta il grado di libertà degli Stati del mondo. Freedom House ha appena degradato la Russia da paese "parzialmente libero" a "paese non libero". La commissione Esteri del Senato ha organizzato una serie di audizioni di esperti per avere a disposizione tutti gli elementi di valutazione del caso russo. I centri studi, specie il Project for a New American Century (Pnac), hanno cominciato a sfornare rapporti e relazioni, mentre le riviste di cultura e analisi politica dedicano pagine e pagine alla non democrazia russa.
Il quadro è disarmante, molto più di quanto si potesse immaginare. Le notizie sullo stato della democrazia in Russia che leggerete qui sotto sono state tratte dalla relazione al Senato americano di Bruce P. Jackson, presidente del Project on Transitional Democracies e direttore del Pnac, dall’anticipazione della scheda sulla Russia contenuta nel prossimo rapporto sulla "Libertà nel mondo 2005", edito da Freedom House, dalle analisi di James Goldgeier della George Washington University e di Michael McFaul della Stanford University e da articoli pubblicati dal Weekly Standard e dalla National Review.
Il cammino verso la quasi dittatura, anzi verso il "regime antidemocratico", come lo definisce Bruce P. Jackson, è cominciato il 25 ottobre del 2003 con l’arresto del magnate del petrolio Mikhail Khodorkovsky. Allora quel provvedimento, così come la successiva persecuzione di altri imprenditori, sembrò far venire a galla l’insicurezza russa nei confronti della gestione del caotico status democratico ereditato da Boris Eltsin. Una cosa fastidiosa, ma di cui in fondo non bisognava preoccuparsi. In realtà è stato il primo passo della strategia putiniana per eliminare ogni suo possibile oppositore e provare a ricreare il tradizionale Stato russo, autocratico in casa e imperialista fuori dai confini. La politica putiniana degli ultimi due anni, infatti, può essere letta come il tentativo riuscito di distruggere la possibilità concreta di praticare le regole della democrazia, mentre all’estero come il tentativo di scoraggiare lo sviluppo democratico dei paesi vicini. In entrambi i casi, il problema reale del terrorismo e della sicurezza è stato usato come pretesto.
Nel maggio del 2004, Putin ha formalizzato l’attacco alla società civile con il discorso sullo stato dell’unione con cui accusava le organizzazioni non governative di lavorare al soldo di interessi stranieri e contro la Russia. Un paio di professori universitari, Igor Sutyagin e Valentin Danilov, sono stati condannati con prove chiaramente false e processi farsa con l’accusa di spionaggio. Sutyagin era il capo della divisione di politica economica e militare dell’istituto di studi americani e canadesi dell’Accademia delle Scienze russe. Ad aprile del 2004, è stato condannato a 15 anni di reclusione per aver passato segreti militari all’intelligence americana e britannica, ma le organizzazioni dei diritti umani hanno spiegato che si tratta di una pena comminata al solo fine di impedire agli accademici russi la collaborazione internazionale. A novembre, il fisico Danilov è stato condannato a 14 anni da scontare in una galera siberiana per aver passato segreti militari alla Cina. La giuria lo aveva assolto, ma la Corte suprema, controllata dal Cremlino, ha ribaltato la sentenza e ordinato un nuovo processo che, infine, ha condannato Danilov.
In generale i russi non possono cambiare democraticamente il loro governo, ecco perché Freedom House ha abbassato il voto a Mosca. Human Rights Watch ha scritto che "i partiti di opposizione sono stati decimati o eliminati, in parte come risultato delle particolarmente difettose elezioni del dicembre 2003". Il partito di Putin, Russia Unita, controlla i due terzi dei seggi alla Duma e ha i numeri per poter approvare qualsiasi cambiamento alla Costituzione che interessa al presidente. Due mesi fa, Putin ha firmato una legge con cui ha abolito le elezioni regionali e avocato l’autorità di nominare i governatori locali. Alla Duma ci sono quattro grandi partiti, i primi tre sono in qualche modo legati a Putin, il quarto, quello comunista, è l’unica opposizione del paese. I partiti liberali hanno denunciato i brogli con cui le loro liste non sono riuscite a superare il 5 per cento, nonostante i sondaggi e gli exit poll avessero previsto il superamento della soglia di accesso al Parlamento.
L’attacco al mondo dei media, specie quelli televisivi, è servito a fortificare il potere putiniano. Tutte le principali televisioni e stazioni radiofoniche sono controllate dallo Stato, quindi da Putin. L’unica radio che manda in onda diversi punti di vista è la Ekho Moskvy, controllata dalla statale Gazprom. I giornalisti che tentano di indagare sulle questioni più delicate, come la Cecenia o l’Ossezia o il Daghestan, vengono licenziati oppure non gli viene concesso di viaggiare. Il Cremlino e i suoi alleati usano la carta giudiziaria per intimidire la stampa indipendente, chiedendo danni miliardari per presunte diffamazioni, per esempio contro i giornali di Boris Berezovsky, il magnate russo costretto all’esilio. I giornalisti sono spesso convocati nei ministeri e intimiditi.
Gli analisti americani sono particolarmente preoccupati dal ruolo dell’ex Kgb nei gangli vitali dell’Amministrazione. Non c’è soltanto Putin, ma anche il 25 per cento dei ministri, sottosegretari, parlamentari proviene dal Kgb, così come il 70 per cento dei governatori. Il numero dei membri dell’ex polizia segreta nel governo Putin è del 300 per cento più alto rispetto ai tempi di Mikhail Gorbaciov. In questa situazione, ha detto Jackson alla commissione Esteri del Senato americano, è molto probabile che l’esercito e i servizi siano usati per sopprimere il dissenso politico e civile.
La distruzione giudiziaria della Yukos, il colosso petrolifero privato russo, a favore della Gazprom, e con la Yukos anche di buona parte della classe imprenditrice indipendente, secondo gli analisti americani non è soltanto una battaglia per il controllo del potere economico, ma anche una mossa necessaria per evitare che i possibili avversari politici possano godere di risorse e finanziamenti. Il Cremlino dice chiaramente che il suo obiettivo è quello di riportare sotto il controllo russo tutte le riserve petrolifere e di gas dell’ex Unione Sovietica, compresa la rete degli oleodotti.
L’ex dissidente russo Andrei Sakharov, le cui parole recentemente sono tornate alla ribalta grazie al libro di Natan Sharansky sul potere salvifico della democrazia, diceva che "un paese che non rispetta i diritti del proprio popolo non rispetterà i diritti dei suoi vicini".
La Russia oggi è uno Stato autoritario in casa e fortemente antidemocratico all’estero. E’ una nazione che crede di essere in competizione con l’occidente per il controllo dello spazio post sovietico. Per evitare l’ingerenza europea, dell’Osce e della Nato sull’ex spazio sovietico, Putin oggi tenta di bloccare il processo democratico nei paesi limitrofi, perché sa bene che le aperture e la libertà diminuirebbero il ruolo di Mosca nella regione. Uno dei consiglieri del Cremlino, Gleb Pavlovsky, dopo la rivoluzione arancione in Ucraina ha suggerito a Putin di adottare una "politica controrivoluzionaria preventiva" nei confronti dei paesi vicini che tendono pericolosamente verso la democrazia e quindi a sfuggire al controllo di Mosca. Un altro consigliere, Sergei Markov, ha proposto la creazione di una versione antidemocratica del National Endowment for Democracy, l’ente americano fondato da Ronald Reagan per finanziare i movimenti democratici in giro per il mondo. Il caso ceceno va visto anche sotto questa luce. E’ questa spinta antidemocratica, cioè di egemonia nella regione, a giustificare i 300 milioni spesi in Ucraina per far vincere il proprio candidato fantoccio, i brogli e i tentativi di assassinio del presidente Victor Yushenko, attribuibili ai servizi in collaborazione con la criminalità russa. Stessa cosa in Georgia, in Moldova e nei paesi caucasici. L’ultima dittatura in Europa, la Bielorussia, è "l’alleato modello" della Russia di Putin. Allo stesso modo preoccupano i disegni mediorientali del Cremlino. Negli anni dell’Unione Sovietica, Evgeny Primakov era l’uomo da guardare con attenzione per preparare le contromosse da Guerra fredda nella battaglia con gli Stati Uniti per il controllo della regione. Nelle ultime settimane, Primakov è risceso in campo, è stato a Teheran, in Siria e in Libano per conto di Putin. Queste cose George Bush le sa, così come sa che i progetti nucleari iraniani sono stati aiutati dall’amico Putin. Ecco perché ieri, per la prima volta, sia pure con toni gentili, Bush ha detto a Putin quello che Reagan disse a Gorbaciov e cioè di buttare giù il Muro.
25 Febbraio 2005