La retromarcia sul ritiro, oppure il ritiro della retromarcia, è al centro del dibattito del centrosinistra dopo il Congresso dei Ds. Il gruppo dirigente diessino non sa ancora se ritirare la proposta di ritiro delle truppe italiane in Iraq, come suggerirebbe la coraggiosa retromarcia di Piero Fassino la settimana scorsa, oppure se fare una retromarcia rispetto alla retromarcia e quindi tornare a chiedere il ritiro del nostro contingente votando no in Parlamento al finanziamento della missione in Iraq.
Francesco Rutelli, Franco Marini e una buona parte della Margherita sono stati chiari al riguardo: in Iraq la situazione è cambiata e il centrosinistra deve prenderne atto. Molto meno chiaro Romano Prodi, secondo il quale "non è cambiato nulla". Il leader del centrosinistra, riguardo alla missione italiana, ha detto che "se cambia lo schema, cambia anche il nostro atteggiamento ma non la nostra posizione contro la guerra". I comunisti italiani e rifondati non sentono ragioni, così come i verdi. Fassino è costretto alle acrobazie, apre un ampio spiraglio ("la nostra posizione può cambiare in base a quello che dirà il governo") ma deve tenere buona quella fetta del suo partito che continua a urlare yankee go home. L’invocazione salvifica dell’Onu perlomeno pare un mantra superato. Ormai ogni giorno si trova un politico, un intellettuale o un analista di centrosinistra che ricorda sommessamente alla propria parte politica come l’Onu in Iraq ci sia già, come il processo politico sia stato avviato proprio dalle Nazioni Unite, come le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza siano lì e tutto quanto.
Oggi giustificare un voto contrario alla missione italiana in Iraq è più difficile per chi come Piero Fassino considera resistenti non i bombaroli ma gli elettori che il 30 gennaio sono andati a votare. C’è poi che l’Italia non ha fatto la guerra, non ha partecipato alla destituzione del regime. L’Italia è andata in Iraq soltanto dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che ha autorizzato l’invio di una forza multinazionale. Le regole d’ingaggio del nostro contingente non sono quelle belliche. In Iraq non sono stati inviati gli elicotteri da combattimento Mangusta. I nostri soldati sono stati uccisi dai terroristi proprio perché stavano aiutando il popolo iracheno ad avviare il processo democratico. Nel frattempo sono arrivate altre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e l’Onu ha esortato i paesi membri a inviare truppe in Iraq. E’ stata coinvolta anche la Nato. Il cammino politico verso la democrazia ha seguito il calendario previsto dall’Onu. Ci sono state le elezioni. Finanche la Francia di monsieur Jacques Chirac, ieri pomeriggio, ha preso atto che ora "la situazione è cambiata".
La sinistra-sinistra italiana però resta inchiodata sul ritiro delle truppe. Il motivo? Solo così si aiuterebbero gli iracheni, dicono. Eppure, prima di esserne così sicuri, sarebbe magari il caso di ascoltare che cosa vogliono gli iracheni. Il presidente, che è sunnita, si chiama Ghazi Al Yawar. E’ quello vestito da sceicco. La settimana scorsa ha ripetuto per l’ennesima volta che chiedere il ritiro delle truppe americane "è assolutamente privo di senso". Uno dei portavoce della lista sciita che dovrebbe aver vinto le elezioni, e che piace all’ayatollah Sistani, Mowaffaq Al Rubaie, ha detto che la prospettiva del ritiro "è una ricetta per il disastro". Uno dei leader della stessa Grande Alleanza, Ibrahim Jaafari, ha ribadito che "se gli Stati Uniti si ritirassero troppo presto, ci sarebbe il caos". La stessa cosa dicono il premier laico Ayyad Allawi e gli altri politici iracheni, siano essi sciiti o sunniti o curdi.
Anche la sinistra americana dice la stessa cosa. E lo ha detto nel modo più autorevole possibile, con il capogruppo dei Democratici alla Commissione Esteri del Senato, Joe Biden. Il senatore del Delaware è l’esponente del Partito democratico con cui a luglio Piero Fassino, a Boston, ha discusso a lungo di questi temi. Domenica, Biden ha scritto un articolo sul Washington Post che cominciava in questo modo: "Prima di poter iniziare in modo responsabile a disimpegnarci dall’Iraq, dovranno esserci due condizioni. Primo, dovranno emergere un governo eletto e una Costituzione considerata legittima dalle principali fazioni. Secondo, quel governo deve sviluppare la capacità di assicurare legge e ordine, fornire i servizi primari e, cosa più importante, sconfiggere gli insorti. Le elezioni di domenica hanno fatto compiere un importante passo avanti rispetto al primo obiettivo, ma poco rispetto al secondo".
Il settimanale New Republic, lettura obbligata negli anni di Bill Clinton, ha scritto che chiedere il ritiro delle truppe, come vuole soltanto il desueto Ted Kennedy, "è il modo sbagliato" di affrontare la questione. Secondo la sinistra americana, sia politica sia intellettuale, finché non sarà completato l’addestramento delle forze di polizia e di sicurezza irachene non si deve nemmeno parlare di ritiro. Questa è esattamente la posizione della Casa Bianca e dei partiti iracheni. Appena gli iracheni saranno in grado di fare da sé, grazie all’addestramento che anche gli italiani forniscono, le truppe multinazionali torneranno a casa.
Oggi gli unici a chiedere il ritiro dei contingenti militari sono soltanto Al Zarqawi e i nostalgici della dittatura. Possibile che coloro che si candidano a guidare l’Italia non riescano a vedere questo banalissimo fatto? Possibile che non si accorgano di come gli omicidi e le stragi colpiscono prevalentemente civili e politici iracheni? I repubblichini di Saddam e i fascisti islamici di Zarqawi non lottano soltanto contro l’America ma, esplicitamente, contro il futuro democratico e liberale dell’Iraq. E se c’è da bombardare l’Onu o la Croce rossa bombardano l’Onu e la Croce rossa, come hanno fatto. Se americani e italiani se ne andassero, non deporrebbero le armi, restaurerebbero la dittatura e avrebbero vinto.
9 Febbraio 2005