Camillo di Christian RoccaGustavsen, Saluzzi, Rosenwinkel, Allevi

TORD GUSTAVSEN ­ The Ground (Ecm)

Questo disco è una specie di 11 settembre per la Ecm, l’austera e algida e ciliosa e cabalistica etichetta culto per il jazz contemporaneo e per quella strana musica che con il jazz ha in comune soltanto l’arte dell’improvvisazione e della composizione istantanea. E’ probabile che niente sarà più come prima dalle parti di Monaco, il quartier generale di Manfred Eicher. Un po’ come niente è stato più come prima a Cupertino, sede della Apple, quando Steve Jobs ha deciso di concedere i suoi tesori agli infedeli windows-oriented e poi di vendergli milioni di i-Pod e di Mac Mini quasi fossero strumenti di proselitismo evangelico. La stessa cosa potrebbe accadere alla Ecm con questo disco di un poco più che trentenne pianista norvegese, Tord Gustavsen, già segnalatosi due anni fa per un meraviglioso debutto "Changing Places", giudicato da questa colonna come il miglior disco del 2003. Gustavsen guida un trio acustico, ma i due compari del contrabbasso e della batteria restano sullo sfondo e lui stesso, a volte, quasi scompare. E’ musica lenta, notturna, melodiosa, malinconica ma sempre palloccolosa, qualsiasi cosa palloccolosa voglia dire. Sembra quasi che il trio suoni per una cantante che però all’ultimo momento non è potuta venire. E’ come se la musica di Keith Jarrett fosse interpretata da Brad Mehldau e Brad Mehldau decidesse di partecipare a Sanremo. The Ground è certamente il disco più facile, più semplice, più cantabile, più commerciale mai prodotto dalla Ecm. Questa colonna ne è felice.

KURT ROSENWINKEL ­ Deep Song (Verve)
Kurt Rosenwinkel è un giovane e belloccio chitarrista jazz, quanto di più lontano ci possa essere dal ritratto dell’ubriacone e dissennato chitarrista interpretato da Sean Penn in Accordi e disaccordi di Woody Allen. Al piano c’è Brad Mehldau, al sassofono Joshua Redman, il meglio tra i trentenni americani. Contrabbasso e batteria sono di pari livello. Cd da prendere a scatola chiusa.

DINO SALUZZI JON CHRISTENSEN ­ Senderos (Ecm)
Può, umanamente, piacere un disco di fisarmonica e batteria? Anzi, neanche di fisarmonica, ma di bandoneon, lo strumento germanico-argentino simile alla concertina? Sì. Senderos è un cd straordinario. La batteria di Christensen dà ritmo e leggerezza rara, il bandoneon di Saluzzi è più di un’orchestra.

GIOVANNI ALLEVI ­ No concept
Il disco ancora non c’è, il pianista sì. Si chiama Giovanni Allevi, viene da Ascoli Piceno e se gli parli di jazz è pronto a mettere mano alla pistola perché la sua è musica scritta, notata, non si sgarra, anche se da piccino suonava Beethoven e poi correva giù sul marciapiede a ballare la break-dance. La sua è musica classica o classica contemporanea, se proprio serve una definizione. Allevi, però, ha debuttato a New York al Blue Note, tempio del jazz americano. Si era presentato per un’audizione e quelli lo hanno assoldato. Una data ai primi di marzo e grande successo. Almeno così dice il suo ufficio stampa, Riccardo Vitanza. Sarà certamente vero. Il colonnista jazz ha avuto l’opportunità di ascoltare in anteprima, e dal vivo, i brani di No concept proprio il giorno prima che Allevi entrasse con tutti i suoi capelli arruffati in sala d’incisione. Il disco uscirà a maggio e contiene un mucchio di melodie semplici e raffinate, ripetitive, quasi cantabili, scritte ed eseguite per piano solo. Il concerto si è tenuto al Laboratorio Griffa di Milano presenti il terzista Luca Sofri, Michele Boroni (il consigliere fogliante di Lapo), più un avvocato penalista del foro di Milano. Il pianoforte era speciale e raro: il Bosendorfer Imperial. In Europa ce ne sono soltanto nove, è lungo quasi tre metri, ha nove tasti in più nella parte grave, i bassi sono potenti e le note vibrano per alcuni secondi. Il cd s’intitola No concept perché Allevi ha voluto prendersi una pausa dalla sua amata "musica concettuale" (la musica concettuale è quel rombo incasinato di note che esce da un pianoforte solo se suonato da Stockhausen o da qualunque bambino di sei anni). In realtà, aver voluto rivendicare l’assenza di concettualità, fa di No concept un cd iper concettuale.

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