Camillo di Christian RoccaLucia conosce l'America ma non vuol darlo a vedere

Lucia Annunziata ha sfiorato il capolavoro con "La sinistra, l’America, la guerra" (Mondadori). Se solo fosse letterariamente più accattivante, se solo contenesse meno errori, se solo proponesse tesi più originali e se fosse ancora più breve di quello che è, be’, l’agile libretto potrebbe essere un buon editoriale. Lucia Annunziata ci scuserà per il brusco giudizio, sa quanto le vogliamo bene, ma l’ex presidente della Rai non è una giornalista qualsiasi, è una delle più celebrate analiste di politica estera del nostro paese, al punto da essere stata appena scelta da Claudio Velardi, con il patrocinio della Farnesina finiana, per guidare un "comitato scientifico" di addestramento professionale a venti giornalisti iracheni. L’opera di Lucia Annunziata non va liquidata con un incenso preventivo né con un applauso di garanzia, merita piuttosto una lettura critica del suo libro. Lucy, per intenderci, è come Alex Del Piero, categoria dei fuoriclasse. Dai fenomeni ci si attende sempre il colpo di genio, il pallonetto a giro che si insacca proprio dove incrociano i legni o, quantomeno, un saggio sul mondo post 11 settembre in cui il World Trade Center non sia chiamato, per due volte, "Trade World Center". Gli editor mondadoriani non le hanno reso un gran servizio: nella seconda di copertina hanno scritto di "un voto iracheno del febbraio 2005" quando, come è noto, si è tenuto il 30 gennaio. A proposito della vittoria elettorale di George Bush, le note di copertina dicono che l’autrice "giunge a una risposta personale e controcorrente: a vincere non sono stati i Valori, come vorrebbero i pensatori neocon, ma la Guerra". Ora, tutti sanno che i neocon sostengono proprio che sia stata la guerra, e non i valori, a far vincere Bush e in realtà lo sa anche la Annunziata, infatti basta leggere il suo saggio per averne conferma: Lucy imputa l’abbaglio sui "valori" non ai neocon, come le fanno dire alla Mondadori, ma ai liberal, alla sinistra che continua a non capire che cosa sia successo l’11 settembre. Da qui a dire che la risposta di Annunziata sia "personale" e soprattutto "controcorrente" ce ne corre: saranno usciti quei trecento articoli esattamente su questo punto mentre, a urne americane ancora aperte, un piccolo giornale d’opinione titolò così: "Netta affermazione del presidente che taglia le tasse e fa la guerra".
La tesi interessante del libro di Annunziata è quella contenuta nel paragrafo "Il complotto", ove la giornalista svela i pregiudizi antiamericani di chi vede cospirazioni ovunque e accusa gli "esigui strumenti intellettuali della sinistra" che sostituisce sempre di più "le proprie speranze con la realtà". Qualche errorino c’è anche in questo paragrafo. Scrive Annunziata che Bush ama ripetere "metafore di rinascita religiosa" (verissimo) ma "i ripetuti riferimenti alla Città sulla Collina" non sono affatto di Bush. Quella è una delle frasi rese famose da Ronald Reagan, peraltro presa in prestito da un avo di John Kerry: John Winthrop, il primo governatore del Massachusetts. Quanto all’altra citazione religiosa attribuita a Bush, "Mille luci", qui al Foglio non l’abbiamo mai sentita ed è probabile che ci sia sfuggita, ma così, a orecchio, ci pare più il titolo in italiano di un libro di Jay McInerney che un riferimento mistico. Non convince nemmeno il giudizio su Bush, il quale "forse da Richard Nixon in poi" sarebbe "il presidente più odiato". Secondo Annunziata, "raramente qualche altro politico ha attratto tanta irrisione e tante denunce". Be’, per Bill Clinton non sono state rose e fiori. Ancora: è verissimo che la campagna elettorale presidenziale sia stata "formidabile" quanto a costi, un po’ meno vero è che siano stati investiti "ben 3 milioni di dollari", a meno che non si riferisse alla quota di spesa giornaliera.
L’analisi di Annunziata della campagna elettorale di John Kerry è intelligente, un po’ meno precise le pezze d’appoggio: Kerry non ha scelto "di aprire" la sua convention con il saluto militare, il saluto militare è arrivato all’inizio del discorso finale della convention, quindi in chiusura del congresso (nel corso del libro Annunziata rettificherà).
In generale è un po’ tirata per i capelli l’idea di leggere le elezioni americane con le categorie politiche della sinistra nostrana. Funziona come saggio sull’Italia, un po’ meno come analisi dell’America. A volte le cose non tornano. A un certo punto, Annunziata scrive che "la classe operaia non è mai definita tale negli Stati Uniti" (ma "working class", allora che è?), così seziona la società americana per "generi", bianchi, neri, ispanici ma continuando a chiamarli "classe lavoratrice". Non è carino definire "repubblicano" l’editorialista liberal del New York Times, "Nicholas Kristoff", specie se gli viene aggiunta una effe di troppo. Non è vero che Ted Kennedy abbia votato "a favore" della nomina di Condi Rice al Dipartimento di Stato (è stato uno degli 11 senatori ad aver votato contro). Rumsfeld non è un "neocon", mentre Condi Rice non si è esibita al pianoforte "poco prima delle elezioni", ma nel 2002. Ma è una delle frasi finali del libro a convincere di meno. Questa: "Non si può dire che il concetto stesso di libertà sia condiviso nel mondo arabo o musulmano". Gli ultimi eventi pare dimostrino il contrario: ricordarselo quando arriveranno i giornalisti iracheni da addestrare.

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