Camillo di Christian RoccaBlair governa da destra, Bush da liberal e gli avversari restano senza idee

New York. George W. Bush e Tony Blair, e per certi versi anche Ariel Sharon, hanno in comune molte più cose di quanto si possa immaginare. La guerra al terrorismo non c’entra, o perlomeno c’entra poco. C’è altro a rendere simili le loro fortune politiche. Sono leader di governo capaci di sottrarre agli avversari le loro idee-bandiera e di lasciarli afoni, smarriti e senza bussola. Di Blair si sa. Si sa che è l’erede di sinistra delle politiche thatcheriane. Si sa che ha trasformato il vecchio Labour in un moderno partito liberale. Si sa che ha confinato i conservatori alla marginalità parlamentare.
In Gran Bretagna, ma anche in Italia, l’ala radicale della sinistra gli imputa di essere diventato di destra. A parti rovesciate, in Israele capita la stessa cosa con Ariel Sharon. Il primo ministro del Likud oggi è criticato dai suoi perché si è trasformato nell’alfiere della tradizionale posizione laburista favorevole allo Stato palestinese. Sharon ha fatto ciò che neanche la sinistra israeliana aveva osato fare: si vuole ritirare unilateralmente da Gaza e intende lasciare gran parte della Cisgiordania. Insomma sta governando da sinistra, così come Blair ha guidato il Regno Unito da destra. La differenza tra Blair e Sharon sta nell’atteggiamento dell’opposizione. A Londra i Tory dicono per principio di no a qualsiasi iniziativa blairiana, anche a quelle più tipicamente thatcheriane, mentre in Israele i laburisti sono al governo e collaborano con il nuovo Sharon che si fa portatore delle loro idee.
A Washington Bush fa come Sharon, ma il partito democratico si comporta come i conservatori inglesi. Risultato: Bush vince e i democratici non sanno da che parte voltarsi, esattamente come i Tory a Londra. Su molti punti, e con l’eccezione del gigantesco taglio delle tasse, Bush ha governato da sinistra, cioè più da democratico che da repubblicano. Sui temi di politica estera la cosa è autoevidente: nel 2000 fu eletto con una piattaforma "umile", come disse lui stesso in uno dei dibattiti presidenziali con Al Gore. In linea con una certa idea isolazionista del suo partito, voleva limitare al minimo la presenza americana all’estero. Eppure dopo l’11 settembre, Bush è diventato il teorico del regime change e del diritto all’ingerenza democratica negli affari degli Stati sovrani, un’idea elaborata dai think tank clintoniani. E, poi, ha coinvolto gli Stati Uniti in un immane sforzo di nation building in Afghanistan e in Iraq, un impegno che ha fatto rabbrividire gran parte del suo stesso schieramento. Bush ha dovuto affrontare l’opposizione di suo padre e della squadra di consiglieri di politica estera di Bush senior, e poi di Colin Powell e degli iper conservatori alla Pat Buchanan. Sul fronte interno, è un "conservatore compassionevole", cioè solidaristico, attento a bilanciare le ragioni del mercato con le necessità di chi non ce la fa. Al di là degli slogan elettorali, quella formula si è tramutata in leggi come il "No child left behind act", un programma federale per il recupero scolastico dei bambini, e nel più grande intervento pubblico degli ultimi 40 anni in campo sanitario, con la spesa di oltre 500 miliardi di dollari per fornire gratuitamente le medicine agli anziani. Per fare tutto ciò, e non rinunciando al taglio delle tasse, Bush ha abbandonato uno dei capisaldi della politica conservatrice: l’attenzione al bilancio. Con lui il deficit è cresciuto a livelli ormai difficilmente quantificabili, al punto che l’American Conservative Union sostiene che Bush stia "distruggendo" il movimento conservatore.
Il Cato Institute ha presentato un rapporto sulla trasformazione del partito repubblicano in un partito di spendaccioni, come neanche i democratici al loro meglio. Anche togliendo le ingenti spese militari e gli investimenti sulla sicurezza nazionale post 11 settembre, Bush resta il presidente che negli ultimi 30 anni ha speso più di ogni altro (57 miliardi di dollari più di Clinton). Nei primi quattro anni, la spesa pubblica è cresciuta del 33 per cento e il budget dei 101 programmi federali che nel 1995 i repubblicani volevano chiudere è aumentato del 27 per cento. L’ultima mossa di Bush è quella della riforma della social security, della previdenza sociale, cioè un tema messo all’ordine del giorno dai democratici negli anni di Clinton. Tutti riconoscono che nel giro di pochi anni non ci saranno più i soldi per pagare le pensioni. Bush ha proposto l’alternativa dei conti-pensione personali e ha preso in prestito dai liberal l’idea di tagli ai benefici in base al reddito, solo per i più ricchi, e non uguali per tutti come vorrebbe il suo partito. Nonostante ciò, i democratici dicono di no. "Non hanno proposte alternative, se non l’aumento della pressione fiscale", dice al Foglio l’ex speech writer di Bush, David Frum. Sul New York Times, David Brooks ha scritto: "Se un repubblicano sposa l’indice progressivo, vuol dire che sta succedendo qualcosa di importante. Se i democratici si oppongono, vuol dire che il partito ha tradito uno dei suoi ideali".

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