Camillo di Christian RoccaQuaranta cristiani arrestati a Riad, mentre il democratizzatore Bush va a braccetto col tiranno saudita

New York. Quaranta cittadini pakistani di religione cristiana, uomini, donne, bambini e anche una signora in sedia a rotelle, sono stati arrestati a Riad, in Arabia Saudita, perché colpevoli di aver partecipato a una funzione religiosa clandestina. Il loro reato, secondo l’Autorità saudita per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, è quello di aver cercato di diffondere "un credo avvelenato" attraverso la distribuzione "di libri e di documenti", cioè i Vangeli. L’operazione di polizia è stata condotta a fine aprile dal governatore di Riad, il fratello del principe reggente saudita Abdullah. Tutto questo è accaduto poche ore prima del cordiale incontro a Crawford, in Texas, tra lo stesso Abdullah e il presidente americano George W. Bush. Ovviamente c’è qualcosa che non torna: Bush è il democratizzatore del medio oriente, ma anche l’amico dei tiranni più pericolosi del medio oriente.
Il punto è che l’America non sa che pesci prendere con l’Arabia Saudita: dipende dal suo petrolio e non riesce a imporle di abbassarne il prezzo (l’alto costo della benzina oggi è il più urgente problema degli Stati Uniti). Allo stesso tempo, gli americani sanno benissimo che Riad è la casamatta del fondamentalismo e del terrorismo islamico. Per dirne una, il Dallas Morning News ha raccontato che un membro della delegazione del principe Abdullah in visita da Bush è stato costretto a scendere dall’aereo e a rimanere a Riad perché il suo nome compariva nella lista degli indesiderati e dei sospetti preparata dopo l’11 settembre dalla Homeland Security americana.
La consapevolezza sulla doppiezza saudita in America cresce ogni giorno di più. Bush prova a far finta di niente e fin qui si è semplicemente limitato a un rimbrotto, sia pure solenne, nel discorso di inaugurazione del suo secondo mandato. Eppure il Congresso e le organizzazioni dei diritti umani fanno pressioni sulla Casa Bianca perché punisca quantomeno le violazioni saudite della libertà religiosa. Eppure altre istituzioni mettono in guardia sulla pericolosità dell’amico saudita. Nella relazione della Commissione sull’11 settembre, per esempio, si legge questa frase: "I problemi relativi al rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita devono essere affrontati apertamente". A settembre 2004, il Dipartimento di Stato ha definito l’Arabia Saudita "paese che desta particolare preoccupazione", ma nonostante sia scaduto da oltre un mese il termine per imporre sanzioni, i diplomatici di Foggy Bottom chiedono altro tempo per poter decidere le mosse appropriate. Ma non una politica chiara non c’è.
A fine gennaio, una commissione indipendente del Center for Religious Freedom (vedi Il Foglio dell’11 febbraio) ha svelato che le moschee saudite in America sono luoghi di diffusione dell’odio, di incitamento alla violenza e di giustificazione della guerra santa terrorista. Qualche giorno fa, il ministro della Giustizia saudita ha incoraggiato pubblicamente le donazioni di denaro ai terroristi che combattono clandestinamente il nuovo governo democratico iracheno e gli americani. Ma non è finita: i sauditi finanziano il terrorismo anche direttamente, oppure attraverso associazioni di beneficenza in qualche modo controllate dal governo.
Un’agenzia saudita di assistenza ai poveri per anni ha fornito denaro e aiuti concreti ai familiari dei kamikaze palestinesi in Israele. Alcune di queste strutture sono state chiuse, altre continuano le attività. La World Assembly of Muslim Youth e l’International Islamic Relief Organization, gruppi che prima dell’11 settembre hanno fornito almeno 60 milioni di dollari ai talebani, continuano indisturbate a finanziare il fondamentalismo islamista e, probabilmente, anche al Qaida. Secondo l’ambasciatore saudita a Washington, Riad non controlla questi enti, ma la cosa è perlomeno controversa. Il deputato di New York, Sue Kelly, ha denunciato questi fatti, ma ha anche ricordato che non si può semplicemente chiedere ai sauditi la chiusura di queste "charity": infatti uno dei cinque pilastri della religione islamica è lo zakat, cioè l’obbligo per ogni musulmano di donare una parte della propria ricchezza ai bisognosi, sicché le preoccupazioni americane sull’uso di questi fondi nel mondo arabo sono spesso interpretate come una mancanza di rispetto nei confronti di uno dei precetti religiosi islamici.
Lo storico Victor Davis Hanson, sul numero di maggio di Commentary, ha spiegato che la politica liberatrice del medio oriente di Bush fa a pugni con l’opposto atteggiamento della Casa Bianca sull’Arabia Saudita, ma anche sull’Egitto e sul Pakistan. Quando si parla di questi tre paesi, "improvvisamente Bush torna realista". L’effetto è devastante, sostiene Hanson, perché fin quando il presidente andrà a braccetto con quei despoti, il suo progetto di democrazia in medio oriente continuerà a destare sospetti.
Bush non ha una soluzione. E’ un ex petroliere che guida un’Amministrazione di ex petrolieri. Crede che l’unica alternativa al petrolio saudita sia tenersi buoni i produttori e, nel frattempo, provare a estrarre più petrolio in America, magari trivellare l’Alaska e aumentare la produzione nucleare. Un gruppo di neoconservatori guidati da Frank Gaffney e da James Woolsey, l’ex direttore clintoniano della Cia, ha presentato invece una proposta radicalmente alternativa (vedi Il Foglio del 25 marzo): un piano esecutivo per convertire l’industria automobilistica americana ai nuovi carburanti e alle tecnologie già sperimentate nelle vetture ibride. Misure che renderebbero l’America libera dal petrolio del medio oriente, più pulita, ma soprattutto più sicura.