New York. Il 25 settembre del 1789, nello stesso identico giorno in cui i padri fondatori degli Stati Uniti approvarono il testo che poi diventò il Primo emendamento, cioè la più solenne dichiarazione di sempre a favore della libertà di religione (e di parola), è successa anche un’altra cosa. Le stesse persone che regalarono all’America quel formidabile testo costituzionale, laico e liberale, votarono anche una mozione che chiedeva al presidente George Washington di proclamare una festa nazionale di Ringraziamento nientemeno che a Dio onnipotente. Qualche anno dopo, il 22 settembre del 1862, Abramo Lincoln riunì il suo governo per annunciare che stava per abolire la schiavitù. Ai suoi ministri, Lincoln disse di aver fatto una promessa solenne a Dio e cioè che in caso di vittoria nella guerra civile avrebbe firmato il decreto. In questi due episodi, in questo essere laici ma anche devoti, c’è tutto il dibattito sul ruolo della religione nella vita politica americana, recentemente messo in discussione da alcuni editorialisti liberal che lamentano di vivere in una teocrazia e di assistere a una specie di jihad cristiano. E’ vero che il capo dei senatori repubblicani, il social-conservative Bill Frist, ha detto che i liberal combattono una battaglia contro "la gente di fede", ma è anche vero che Bush ha detto il contrario, smentendo Frist. Ed è anche vero che il più fondamentalista tra i politici cristiani, il reverendo Pat Robertson, non ha avuto problemi a dichiarare in tv che Rudy Giuliani sarebbe un ottimo presidente nonostante sia pro aborto e pro gay.
I grandi quotidiani negli ultimi giorni hanno aperto un dibattito serio su questo punto: hanno ragione i liberal a denunciare l’avvento della teocrazia oppure è soltanto una fissazione mondana dei radical chic? Ha cominciato, sul Washington Post, un ex cronista del New York Times, John McCandlish Phillips, per anni l’unico giornalista evangelico dell’intero staff del New York Times: "In più di 50 anni di attenta osservazione dei giornali non ho mai visto, neanche lontanamente, tanto odio e tanta paura come quella espressa dagli opinionisti dei grandi giornali negli ultimi 40 giorni". Maureen Dowd inizia gli articoli scrivendo "Diomio, viviamo in una teocrazia", Frank Rich afferma che "il racket di Dio minaccia lo Stato di diritto", entrambi sostengono che c’è in corso un "jihad cristiano". Paul Krugman contrappone gli ignoranti fondamentalisti agli illuminati professori dell’Ivy League, dimenticandosi che le grandi università americane sono state fondate da uomini di fede e di preghiera per motivi rintracciabili nella Bibbia e non nei principi del relativismo culturale. Anche opinionisti conservatori, come Andrew Sullivan, temono la guerra santa, certamente diversa da quella omicida degli islamisti ma pur sempre pericolosa. Phillips ha spiegato che gli evangelici non vogliono sovvertire la separazione tra Stato e religione, sono piuttosto preoccupati dal crescente pensiero unico laicista secondo cui ogni cosa che abbia connotati religiosi deve essere messa ai margini della vita pubblica e civile.
David Brooks, editorialista neocon del New York Times, ha ricordato l’episodio di Lincoln ma anche la lezione religiosa e civile del reverendo Martin Luther King. Brooks rigetta la tesi suggerita dai liberal secondo cui la guerra culturale in corso sia tra la ragione illuminata da una parte e l’assolutismo dogmatico dall’altra. Ma rigetta anche la tesi secondo cui la libertà si trova nell’obbedienza assoluta alla verità eterna. George Will, columnist del Washington Post, giudica non realistiche le preoccupazioni dei liberal ma trova altrettanto ridicolo lo status di vittime che i cristiani si sono ritagliati in questi mesi. Christopher Hitchens, sul Wall Street Journal, ricorda che i padri del movimento conservatore, da Ayn Rand a Leo Strauss a Barry Goldwater, non erano credenti e che la sinistra si è squalificata definitivamente considerando il jihad come una lotta di liberazione e Bin Laden come un teologo. Ma aggiunge che il nostro successo in Iraq dipende dalla separazione tra Stato e Islam: come facciamo a mantenere questo obiettivo all’estero e poi sovvertirlo in patria?
7 Maggio 2005