Camillo di Christian RoccaDimenticatevi del medio oriente, il vero problema è la Cina

New York. Dimenticatevi del medio oriente, il vero problema è la Cina. Solo che gli americani non sanno che cosa fare. Prima dell’11 settembre erano ben consapevoli della nuova sfida. Nessuno dubitava del fatto che nel XXI secolo il centro strategico del mondo avrebbe abbandonato l’Atlantico, e quindi l’Europa, e si sarebbe spostato sul Pacifico: da una parte gli Stati Uniti, dall’altra il futuro competitor cinese. Gli attacchi islamisti a New York e a Washington hanno momentaneamente rifocalizzato l’obiettivo sul medio oriente e sull’Europa, ma quattro anni dopo (e tre dittature in meno) la questione cinese è improvvisamente tornata a occupare le pagine dei giornali, a impegnare gli analisti e a ravvivare il dibattito geopolitico.
Il punto di partenza è che la Casa Bianca non ha una strategia ben definita su come affrontare il caso cinese, ma non ce l’hanno nemmeno gli oppositori del Partito democratico. Stanno tutti a guardare che cosa succede. La Cina è una nazione con quasi un miliardo e mezzo di persone, un gigantesco mercato ancora inesplorato e un prodotto interno lordo che cresce in modo esponenziale, nonostante sia ancora nettamente inferiore rispetto a quello americano. Pechino è ancora lontana dal poter rivaleggiare con le potenze occidentali, ma la tendenza è quella. E lo dimostra anche l’esplosione della spesa militare cinese, ormai la terza al mondo. Che cosa fare dunque? Nelle ultime settimane alcuni tra i più attenti esperti di geopolitica hanno cominciato a discuterne e a proporre soluzioni al di fuori dei circoli ristretti dei centri studi di Washington. La rivista liberal The Atlantic Monthly ha dedicato la copertina del numero di giugno a “Come combatteremo la Cina”, con un saggio di analisi militare scritto da Robert Kaplan. Sul Washington Post è intervenuto il quasi omonimo Robert Kagan, l’analista neoconservatore noto per i saggi sui rapporti transatlantici post 11 settembre. Il suo articolo si intitolava “L’illusione di gestire la Cina”. Il magazine Us News questa settimana ha pubblicato la copertina e un editoriale di Richard Haas, il presidente realista del Council on Foreign Relations. Infine, un paio di giorni fa il vecchio leone Henry Kissinger, esperto di Cina e avversario dei neocon, ha pubblicato un editoriale sul Washington Post dal titolo “Il contenimento non funzionerà”. A grandi linee gli schieramenti sono questi: i liberal credono che l’America stia andando verso una nuova Guerra fredda con la Cina e discutono di come organizzare una nuova alleanza militare regionale sul modello della Nato. I realisti sostengono che essere aggressivi non paga, per cui è meglio provare a conquistarsi la simpatia dei cinesi e tenere a bada l’isola democratica di Taiwan. I neocon spiegano che è ingenuo pensare che l’America possa influire sul comportamento della Cina. Kissinger, infine, crede sia sbagliato provare a contenere il gigante cinese come si tentò di fare con i sovietici e quindi propone di rafforzare i rapporti con Pechino fino a diventare partner, amici e soci dei cinesi.

Kagan versus Kissinger
I liberal e i realisti consigliano di prepararsi al peggio ma, contemporaneamente, invitano la Casa Bianca a usare le buone maniere per provare a convincere Pechino delle buone intenzioni di Washington. Bob Kagan giudica questo atteggiamento fuori dalla realtà. In gioco c’è l’egemonia in Asia. L’America può decidere di cederla oppure di mantenerla. La prima ipotesi è scartata da tutti, la seconda porterà necessariamente a uno scontro con i cinesi. Sarebbe davvero molto bello, ed è certamente rassicurante – ha scritto Kagan – pensare che l’America sia in grado di poter gestire la crescita cinese. L’idea stessa implica gradualismo, possibilità di prevedere il futuro e molto tempo a disposizione per prepararsi, prendere misure adeguate e se necessario aggiustarle in corso d’opera. Vuol dire anche essere pronti a reagire nel caso la Cina diventasse una vera minaccia, stando però attenti a non fare un passo in più del dovuto perché se la trattiamo prematuramente come nemica, nemica certamente diventerà. Kagan non è d’accordo: “La storia delle potenze emergenti e i tentativi delle grandi potenze già stabilite di gestirle forniscono davvero pochi motivi per essere fiduciosi. Raramente sono cresciute senza aver fatto scoppiare una grande guerra per rimodellare il sistema internazionale in modo da riflettere la nuova realtà sul campo. La “gestione” che ha avuto più successo è quella dell’appeasement britannico nei confronti degli Stati Uniti, quando gli inglesi cedettero l’intero emisfero occidentale (tranne il Canada) agli espansionisti americani. Il fatto che le due potenze condividessero una comune ideologia liberale e democratica, e quindi le stessa idea di ordine internazionale, dal punto di vista britannico ha ampiamente diminuito i rischi”. Altri esempi sono meno incoraggianti, ricorda Kagan: quindi possiamo anche credere che i cinesi non vorranno mai sovvertire l’ordine internazionale, ma dobbiamo renderci conto che la natura dell’espansione cinese sarà determinata da loro stessi non dagli Stati Uniti.
Kissinger giudica sbagliato e pericoloso il ragionamento e spiega che l’imperialismo militare non è nelle corde dei cinesi e che un confronto aspro con Pechino isolerebbe Washington dal resto del mondo. La sfida piuttosto è politica ed economica. Secondo Kissinger, “paradossalmente la migliore strategia per raggiungere gli obiettivi antiegemonici è quella di mantere relazioni strette con i maggiori paesi dell’Asia, compresa la Cina”.

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