Camillo di Christian RoccaLO STATO DELL'AMERICA: a che punto è George W. (primo di una serie di articoli)

Il più grande problema di George Bush è che oggi l’America non ha grandi problemi. E’ questo il motivo per cui qualsiasi argomento il presidente affronti (riforma della previdenza sociale o battaglia culturale sullo strapotere dei giudici) non riesce a incontrare l’entusiasmo dei connazionali. Tanto più che il suo approccio è sempre rivoluzionario, riformatore radicale. Lo stato dell’economia è buono, dopo la recessione del 2000 e la crisi post 11 settembre. Il prodotto interno è cresciuto del 3,8 per cento per il terzo quadrimestre consecutivo, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 5,1 per cento, molto vicino a quello che gli esperti giudicano “naturale” in un’economia in salute. Il numero dei senza-lavoro è più basso della media che si registrava negli anni del boom clintoniano e nei decenni precedenti. Soltanto nell’ultimo anno sono state emesse due milioni di nuove buste paga. Oggi sono 141 milioni gli americani che lavorano, una cifra mai raggiunta nella storia degli Stati Uniti. Nessuna crisi, dunque. E buone prospettive per il futuro, anche sull’enorme deficit pubblico creato dal conservatorismo compassionevole (e guerriero) di Bush. La crescita dell’economia infatti ha portato nelle casse del Tesoro 54 miliardi di dollari in più del previsto sicché le proiezioni del deficit 2005 si sono ridotte da 427 a 370 miliardi. Sempre una bella cifra, ma c’è già un piano di rientro che potrebbe essere più veloce se l’economia continuasse a crescere. La politica di sviluppo (meno tasse, più spesa sociale) ha funzionato. Il passo successivo è quello del riordino delle leggi fiscali che dovrebbe far risparmiare vari miliardi di dollari. Ma Bush non c’è ancora riuscito e pochi giorni fa ha di nuovo posticipato la presentazione di una proposta articolata.
Ci sono due eccezioni a questo ritratto di serenità americana: il prezzo della benzina e il costo delle assicurazioni sanitarie. Ma in entrambi i casi, la Casa Bianca e il Congresso possono fare poco o nulla. L’impennata del petrolio è dovuta alle richieste cinesi (più 30 per cento l’anno scorso), mentre le soluzioni studiate in America, a cominciare dalla legge sull’energia già approvata in un ramo del Congresso, sembrano più che altro palliativi. Da un’Amministrazione oil-oriented come quella Bush, cioè formata in gran parte da ex alti dirigenti del settore petrolifero, è difficile aspettarsi una rivoluzione energetica come quella prospettata dal think tank conservatore “Set America Free”. Questo centro studi chiede di puntare sulla riconversione dell’industria automobilistica e in particolare su energie alternative a quelle petrolifere. L’idea è quella di rivoluzionare il settore dei trasporti, usando tecnologie esistenti, già usate e commercializzate, come le automobili ibride che funzionano sia a elettricità sia a benzina e i nuovi carburanti ecologici. Se entro il 2025 tutte le auto fossero di questo tipo, gli Stati Uniti potrebbero ridurre dell’80 per cento l’importazione di petrolio. L’America oggi consuma un quarto delle riserve petrolifere mondiali, ma dispone soltanto del 3 per cento delle risorse, quindi è costretta a importare più del 60 per cento del fabbisogno e la sua dipendenza dal medio oriente cresce sempre di più. Liberarsi da questa dipendenza, come chiedeva anche John Kerry in campagna elettorale, è una questione di sicurezza nazionale, perché consentirebbe agli Stati Uniti di perseguire in medio oriente una politica libera dal ricatto energetico. La soluzione offerta da Bush, e ora in via d’approvazione al Congresso, punta invece a estrarre più petrolio negli Stati Uniti e a esplorare le potenzialità dell’Alaska, dove oggi è vietato trivellare.

La riforma del meccanismo dei “torti”
Gli americani non hanno soltanto il problema del pieno di benzina. Ogni anno il costo dell’assicurazione sanitaria aumenta a un tasso quattro volte superiore a quello dell’inflazione. Va detto però che, a differenza di quanto si pensa in Europa, non è vero che in America ci sia insicurezza sociale. Non è vero cioè che se una persona si ammala o perde il lavoro o non guadagna abbastanza da permettersi un’assicurazione, muore di stenti. Bambini, minorenni, disabili, anziani, pensionati, donne incinte e chiunque abbia un reddito basso usufruiscono dei programmi federali Medicaid e Medicare, recentemente ampliati a dismisura da Bush, sia per le cure sia per le medicine. Resta il costo esorbitante delle assicurazioni sanitarie per chi non rientra nelle categorie a rischio. Nessuno, né i democratici né i repubblicani, ha una ricetta precisa. I primi vorrebbero porre dei tetti alle polizze, ma la lobby degli assicuratori è molto forte. I repubblicani credono che soltanto il mercato possa calmierare i prezzi.
A febbraio Bush è riuscito a imporre dei limiti al “tort system”, il meccanismo di ricompensa dei “torti” sanitari subiti dai cittadini. Nel corso degli anni i costi di queste cause miliardarie hanno benificiato soltanto poche persone e soprattutto gli avvocati, quei trial-lawyers che in America sono odiati almeno quanto gli assicuratori (Kerry ha fatto l’errore di scegliere uno di loro, John Edwards, come candidato vicepresidente). Quei costi sono ricaduti sul consumatore, il quale oltre alla prestazione sanitaria paga anche il prezzo dell’assicurazione che gli ospedali sono costretti a sottoscrivere per evitare la bancarotta nel caso eseguano con negligenza una medicazione o un intervento. La riforma ha posto un tetto di 250 mila dollari alle ricompense per i danni non economici e circoscritto le cause al livello federale, vietandole nelle corti statali.
Questo è uno dei pochi successi del secondo mandato di Bush. Un altro è quello delle nomine giudiziarie nelle corti federali, bloccate nei primi quattro anni dall’ostruzionismo dell’opposizione. Bush è riuscito a ottenere il via libera del Senato sulle più controverse, dopo una battaglia che si è conclusa con un compromesso siglato da un gruppo di senatori centristi. Ma la questione si riproporrà quando Bush nominerà il sostituto di Sandra O’Connor alla Corte suprema.
Lo scontro con i democratici si è spostato dalla riforma della previdenza sociale alla battaglia per l’alta corte. Sulle pensioni la sconfitta di Bush è cocente, sebbene gli strateghi della Casa Bianca stiano facendo di tutto per farla dimenticare. All’indomani del successo elettorale, Bush aveva detto che avrebbe speso il capitale politico guadagnato il 2 novembre scorso proprio sulla riforma previdenziale, per provare a costruire quella “società di proprietari” che era stato lo slogan della sua campagna. Il tour in 60 città non ha funzionato: più Bush ha spiegato il suo piano, più gli americani si sono convinti di poterne fare a meno. Tutti riconoscono che prima o poi, cioè quando la generazione dei baby boomers comincerà ad andare in pensione, il sistema pensionistico andrà in crisi. (Tra l’altro fu Bill Clinton il primo a porre il problema). Ma nessuno vuole accettare i tagli dei benifici oggi garantiti dalla Social Security. I democratici propongono di aumentare le tasse, ma lo dicono a voce bassa per evitare ulteriori débâcle elettorali. La soluzione offerta da Bush, cioè la possibilità di sottoscrivere conti-pensione personali legati agli andamenti dei mercati e ai buoni del Tesoro, è parsa troppo radicale e misteriosa. In una parola: pericolosa. L’ultima mossa della Casa Bianca è quella di accettare una proposta di riforma che fa a meno dei conti-pensione. Bush non ci ha rinunciato, ma per il momento è costretto a non parlarne più. A questa sconfitta se ne sono aggiunte altre. Intanto dal Senato non è ancora riuscito a ottenere la conferma di John Bolton ad ambasciatore all’Onu. E quando ha chiesto al suo partito di non votare la legge che minaccia di ritirare metà del finanziamento Usa alle Nazioni Unite, la stragrande maggioranza dei repubblicani gli ha voltato le spalle. La stessa cosa è accaduta quando è stato lui stesso a minacciare il veto presidenziale sul progetto di legge che favorisce l’uso di soldi federali per la ricerca scientifica sugli embrioni.

In Iraq manca un obiettivo chiaro
Bush può vantare la sempre fragile certezza di aver evitato altri attentati sul suolo americano e ha incassato il risultato delle elezioni irachene e il successivo vento democratico che si è diffuso nella regione. Ma dopo quel voto inseguito per due anni, la Casa Bianca non ha più un obiettivo chiaro, visibile. Bush non è riuscito a spiegare quale sia la prossima scadenza. Il punto è che probabilmente non c’è, e se c’è dipende in gran parte dagli stessi iracheni. Ovviamente resta l’impegno ad addestrare le truppe di Baghdad, proteggere le nuove istituzioni democratiche e sconfiggere i terroristi. Con l’Europa i rapporti non sono più tesi come una volta, ma prima o poi scoppieranno le crisi con l’Iran e con la Corea del Nord. In entrambi i casi, l’America sia di destra sia di sinistra non ha le idee chiare, se non la certezza che più si rimanda più diventa difficile trovare una soluzione pacifica. A queste difficoltà si deve aggiungere la maledizione del secondo mandato che solitamente colpisce i presidenti rieletti. Quando non è uno scandalo a fermarli, come successe con il Watergate per Nixon, l’Iran-Contras per Reagan e Monica Lewinsky per Clinton, sono le elezioni di metà mandato a rendere il presidente “un’anatra zoppa”. La tradizione vuole che il partito del presidente rieletto perda le elezioni di mid-term (la media dice: 5 o 6 seggi in meno al Senato). I repubblicani fiutano l’aria di un presidente in difficoltà e sono tentati dallo smarcarsi, tanto più che il vice di Bush, Dick Cheney, ha deciso di non candidarsi nel 2008. Insomma alcuni di loro temono che Bush possa essere un peso in vista delle elezioni di mid-term del 2006. Alla fine dello scorso anno lo stesso Bush era consapevole di avere poco tempo a disposizione per i suoi progetti di riforma interni e di promozione della democrazia all’estero. Sei mesi se ne sono già andati e i successi dei primi quattro anni sembrano lontani. L’avventura di Bush è finita? Non è detto. Anzi è probabile il contrario. Intanto gli avversari non hanno una politica alternativa in nessun campo: i liberal si sono trasformati nel partito del no e basta. Poi Bush è abituato a vivacchiare con indici di gradimento bassi, salvo poi trionfare alle urne. Infine alla Casa Bianca pare facciano un calcolo politico diverso, sondaggi alla mano: calma, c’è tempo per attuare il programma. Non solo non perderemo le elezioni del 2006, ma al Senato aumenteremo il vantaggio. Dicono che questa sia la previsione di Karl Rove.

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