Se provate a interpretare le polemiche sulla composizione della Corte suprema americana con i soliti, stanchi e scontati argomenti della “destra contro la sinistra” o dei “religiosi contro i laici” è molto probabile che non ne uscirete vivi, cioè è quasi certo che non vi spiegherete come mai alcuni giudici nominati da presidenti repubblicani rifiutino di firmare sentenze contro l’aborto, né come sia possibile che il più conservatore tra i nove uomini in nero di Washington, vale a dire Clarence Thomas, si sia battuto per consentire la produzione a uso personale della marijuana. Con quegli schemi in testa non crederete ai vostri occhi se vi capitasse di leggere la recentissima decisione dei giudici liberal e moderati a favore del diritto delle grandi corporation e delle amministrazioni locali di espropriare ai cittadini le case di proprietà in caso di un buon affare immobiliare che producesse benessere e quindi maggiore ricchezza per la società. Ancora: Alberto Gonzales, ex consigliere giuridico della Casa Bianca, uomo di fiducia di Bush, ideatore della cornice giuridica per i detenuti di Guantanamo e oggi ministro della Giustizia, è il candidato a sostituire Sandra O’Connor più odiato dai conservatori e, tra i papabili, è il preferito dai liberal. Perché? Come mai? Com’è possibile che una Corte formata da sette giudici conservatori e da due democratici non voti secondo la linea ideologica di chi li ha nominati e anzi, al contrario, sia considerata un baluardo delle conquiste dei liberal, a cominciare dalla sentenza sull’aborto che nel 2000 è stata confermata con sei voti contro tre?
L’unico modo per comprendere l’intrigo è quello suggerito tempo fa da Charles Krauthammer sul Washington Post. I giudici non vanno valutati dalle decisioni prese, tantomeno dalle sentenze emesse quando sedevano nelle corti federali di primo grado. In quel caso, infatti, i magistrati sono obbligati ad applicare i precedenti della Corte suprema, come prevedono le regole del diritto comune (la common law) tipiche dei sistemi anglosassoni. Invece, una volta nominati giudici supremi possono fare ciò che vogliono. E’ successo con David Souter, scelto da Bush senior per il suo curriculum conservatore nelle corti federali, ma diventato il paladino delle cause liberal appena nominato.
Le tre correnti di pensiero
Secondo Krauthammer, i giudici non vanno giudicati nemmeno dalle decisioni prese dentro la Corte, piuttosto da come sono giunti a quelle determinate conclusioni. Se Clarence Thomas considera costituzionale la legge che consente la produzione personale di marijuana, vuol dire che è favorevole all’uso di droghe? Oppure se sostiene che la legge antisodomia del Texas non violi la Costituzione, significa che vuole reprimere i diritti dei gay o magari degli afroamericani se, da afroamericano, vuole cancellare le leggi che riservano quote discriminatorie a favore delle minoranze etniche? Nel caso della legge antisodomia, Thomas scrisse che se fosse stato un parlamentare del Texas avrebbe votato per abrogare quella norma, ma essendo un giudice e non un legislatore, non ha alcun diritto di cancellare una legge interpretando arbitrariamente una Costituzione che su quel punto non dice nulla.
Il dibattito è esattamente questo, anche sul tema più scottante, cioè sull’aborto. Può sembrare minuscolo, tecnico, procedurale ma in realtà è gigantesco, sostanziale e riguarda la più stretta applicazione della teoria della divisione dei poteri. Si contrappongono due, in realtà tre, diverse dottrine giuridiche. La prima è quella storicamente prevalente, consolidata durante la presidenza del giudice Earl Warren (anni Cinquanta e Sessanta), ma oggi in declino. Ed è questa: la Costituzione è un testo vivente e va interpretato secondo “gli standard in evoluzione che segnano il progresso di una società che matura”, come diceva una famosa formula di Warren ripresa di recente per giudicare incostituzionale la pena di morte per i minorenni. Vale a dire che i principi stabiliti in quella carta scritta nel diciottesimo secolo sono da adeguare alla realtà odierna e devono tener conto del cambiamento avvenuto nella società. E’ il principio che regola il sistema inglese, dove però la Costituzione non è scritta, ma è costituita dall’interpretazione dei precedenti giurisprudenziali. Non è una differenza da poco.
Secondo questa dottrina, i nove giudici costituzionali possono decidere quale sia “l’evoluzione della società matura” e di conseguenza adeguare la Carta ai cambiamenti in corso. Il capofila di questa dottrina è Stephen Breyer, uno dei due giudici scelti da Bill Clinton. Breyer descrive le sue idee con un’espressione che sembra uno slogan usato dal Pentagono: “Libertà militante”.
I conservatori si sentono oltraggiati da questa dottrina e ritengono che sia il sotterfugio usato dai liberal per far passare surrettiziamente idee e proposte regolarmente bocciate dagli elettori nelle libere elezioni democratiche. Il caso dell’aborto è tutto qui. Non c’è una legge federale sul tema e non potrebbe esserci perché è materia di competenza degli Stati. C’è invece una sentenza del 1973, la “Roe contro Wade”, che impedisce ai rappresentanti del popolo di legiferare perché, con un voto di cinque giudici contro quattro, la Corte ha deciso che l’aborto è un diritto garantito dalla Costituzione.
Ovviamente nella Costituzione non si parla d’aborto. Ed ecco l’altra dottrina giuridica, quella degli “originalisti”, una corrente in ascesa guidata da Antonin Scalia. Costoro credono che la Costituzione sia quella scritta e basta, pensano cioè che non vada interpretata alla luce degli odierni sviluppi etico-sociali. Scalia sostiene che il testo costituzionale sia un documento legale e come tale valga per quello che dice, non per quello che non dice ma che un gruppo di giudici vorrebbe che dicesse. Se di aborto non c’è traccia, la Corte non ha diritto di occuparsene. Questo vuol dire che se la Corte annullasse la “Roe contro Wade” (sarebbero necessari due nuovi giudici “pro-life” al posto di due “pro-choice”) l’aborto non diventerebbe illegale, tornerebbe di competenza degli Stati. E con l’eccezione dell’Alabama e dello Utah, probabilmente non cambierebbe nulla.
Va da sé, dicono gli originalisti, che la società non sempre “matura”, come sostengono gli altri, talvolta anzi può “marcire”, cioè regredire anziché progredire. Ecco perché secondo loro è necessario attenersi al testo originale e non provare a tirarlo da una parte o dall’altra in base a mode passeggere o a cambiamenti di costume. Ma c’è qualcosa in più: gli originalisti credono che il compito dei giudici, anche dei giudici costituzionali, sia soltanto quello di applicare la legge, non di crearla. Il potere legislativo spetta ai Parlamenti statali e, nel caso in cui la Costituzione originale fosse ritenuta obsoleta, al Congresso federale attraverso la procedura degli emendamenti costituzionali. Insomma, gli originalisti vorrebbero contare di meno e rigettano l’attivismo che impone ai magistrati di qualsiasi livello e grado il dovere di intervenire nella vita sociale per aumentare la protezione dei diritti dei cittadini.
Gli originalisti non sono necessariamente conservatori, anche se spesso sono loro alleati. Sono originalisti sia i federalisti sia i libertari, perché contrari all’intervento pubblico nella società. Gli originalisti più radicali sono gli esponenti della “Costituzione in esilio”, guidati dentro la Corte da Clarence Thomas. La differenza è questa: gli originalisti di Scalia tengono conto dei precedenti giurisprudenziali e non credono sia saggio cancellare settant’anni di sentenze costituzionali nonostante siano state emanate interpretando allegramente la Costituzione. Tutto sommato, dicono gi originalisti di Scalia, va tenuto conto che molte di quelle sentenze sono entrate nel dna della società americana. L’esempio più lampante è quello dell’intervento pubblico varato nel 1937 da Franklin Roosevelt per superare la crisi economica della Grande Depressione. Il New Deal fu reso possibile da un’interpretazione creativa della Costituzione che consentì al Congresso di legiferare su materie che la lettera della Costituzione affida agli Stati membri. Da allora è stata una valanga, al punto che i seguaci della dottrina Thomas credono che da quell’anno la Costituzione viva “in esilio”, maltrattata, ribaltata e tradita. I giuristi del movimento della “Costituzione in esilio”, a differenza degli originalisti, sono favorevoli all’attivismo giudiziario. Incoraggiano i propri seguaci ad abbattere ogni legge federale che non rientri nella stretta cornice costituzionale. Come gli originalisti di Scalia diffidano del potere federale, ma sono convinti che anche i singoli Stati minacciano le libertà economiche garantite ai cittadini dalla Costituzione. Secondo loro tutte le norme che regolamentano l’economia, l’ambiente, il territorio e soprattutto le leggi sulla ridistribuzione della ricchezza (dallo Stato sociale alla tassazione progressiva) violano il principio costituzionale della proprietà privata che non può essere limitata “senza una compensazione”. George Bush ha ripetuto più volte di apprezzare sia Scalia sia Thomas, e in generale di voler nominare giudici che si attengono alla lettera della Costituzione.