Camillo di Christian Rocca11 settembre, quattro anni dopo (e ora i liberal apprezzano il terribile Allan Bloom)

L’11 settembre di quattro anni fa si disse che niente sarebbe stato più come prima. La profezia era esatta, è cambiato molto da quella mattina del 2001. Quattro anni fa l’estremismo islamico era in grado di organizzare un piano di quella gigantesca portata, il punto più alto di un’offensiva terrorista cominciata nel 1979 e cresciuta di anno in anno, di mese in mese, di settimana in settimana sotto lo sguardo indifferente del mondo occidentale. Quattro anni fa l’estremismo talebano regnava in Afghanistan, mentre in Iraq poteva contare su un regime guerrafondaio, finanziatore dei kamikaze e alleato del radicalismo islamico (ora, finalmente, dei legami tra Saddam e l’Islam si è accorta anche Repubblica con un editoriale di Bernardo Valli del primo settembre: benvenuti). Tutto questo non c’è più.
Quattro anni fa, le piazze arabe e islamiche avevano festeggiato il crollo delle due Torri di Manhattan, mentre quattro anni dopo, nonostante le stragi e le minacce di morte, sono corse a votare liberamente e a manifestare per i propri diritti, per la libertà e per la democrazia in Iraq, in Afghanistan, in Libano e in Egitto. Quattro anni dopo, l’organizzazione di al Qaida è semidistrutta, i suoi leader uccisi, arrestati o sepolti vivi in qualche caverna su sperdute montagne. Ci sono due dittatori in meno, anzi tre se aggiungiamo Arafat, e due popoli sono stati liberati grazie all’intervento anglo-americano a sostegno di quei coraggiosi partigiani di diversa estrazione etnica, politica e religiosa che oggi siedono insieme nei rispettivi governi democratici assediati dai nostalgici della dittatura e della barbarie.
Quattro anni fa, il fondamentalismo islamico era l’unica alternativa possibile per chi in medio oriente non sopportava l’oppressione, anche perché per costoro era facile accusare l’America di aver contribuito alla loro miseria alleandosi e sostenendo i regimi torturatori. Quattro anni dopo gli israeliani hanno riconsegnato Gaza ai palestinesi e finanche un personaggio torbido come il colonnello Gheddafi ha fiutato la nuova aria e abbandonato i piani nucleari. In quattro anni ciò che è cambiato è l’approccio degli Stati Uniti nei confronti del Grande medio oriente: con le buone e le cattive ora Washington non aiuta più, o aiuta di meno, i regimi dittatoriali della regione, al contrario di quanto ha fatto fino all’11 settembre nell’illusione che il pugno forte dei tiranni locali e una vagonata di dollari potessero tenere a bada l’estremismo islamico e garantire l’interesse americano e occidentale. Quella dottrina è crollata insieme con le Torri. E con quella dottrina sono stati spazzati via prima il regime talebano e saddamita, poi il regno di Arafat e uno dopo l’altro i programmi bellicosi libici, l’occupazione israeliana e quella siriana in Libano. Quattro anni dopo, il venticello democratico finanziato dai dollari americani e protetto dai soldati Usa è diventato un’alternativa credibile all’estremismo e alla dittatura in medio oriente. Il regime di Damasco è improvvisamente entrato in crisi, il rais egiziano Hosni Mubarak è stato costretto ad allargare la gara elettorale, anche solo nominalmente, all’opposizione. Per la prima volta i palestinesi trattano con una leadership israeliana e americana favorevole a uno Stato arabo accanto a quello ebraico.
Il merito o il demerito è di George W. Bush e di Tony Blair, entrambi sfidati in patria esattamente su questo ed esattamente per questo rieletti trionfalmente. I due leader europei che si sono contrapposti a questa visione anglo-americana, cioè Jacques Chirac e Gerhard Schröder, sono in difficoltà, hanno già perso le elezioni locali ed europee, sono a un passo dall’uscita di scena e dal liberare il campo a politici filoatlantici e pregiudizialmente favorevoli all’America. L’Onu e Kofi Annan, già responsabili del rafforzamento del regime iracheno con la gestione allegra e criminosa dell’Oil for food, vivono uno dei momenti più umilianti della loro storia. A Bruxelles non c’è più il pacifista zapateriano Romano Prodi, ma l’ospite del vertice pre-guerra delle Azzorre, José Manuel Barroso. C’è perfino un Papa più intransigente del precedente nel difendere l’occidente dall’attacco islamista. Uno degli architetti dell’intervento in medio oriente, Paul Wolfowitz, è alla Banca Mondiale per guidare il pilastro finanziario ed economico della nuova strategia globale democratica.
Tra i membri della coalizione dei volenterosi, Silvio Berlusconi è il leader più in difficoltà, ma per questioni interne e non di politica estera, che anzi è il fiore all’occhiello della sua presidenza. Il leader australiano John Howard è stato rieletto a Canberra, mentre a Madrid c’è stato un cambio di governo inaspettato fino a due giorni prima le elezioni, ovvero fino alla dichiarazione di voto, espressa con la strage di Madrid, della cellula spagnola di al Qaida.

Quel che non è cambiato
Quattro anni dopo l’11 settembre, oltre alla strage di Atocha, sono accadute molte altre cose negative. Intanto il continuo e sanguinario caos iracheno provocato dalla santa alleanza tra i nostalgici del dittatore e i guerrasantieri di Zarqawi, poi la radicalizzazione del regime rivoluzionario iraniano, la mobilitazione delle cellule terroriste europee che hanno già colpito a Madrid e a Londra e, infine, le mai sopite stragi in Egitto e nel resto del mondo islamico. Il tempo dirà se questi elementi negativi costituiscono il bicchiere mezzo vuoto o quello mezzo pieno della rivoluzione bushiana post 11 settembre. E dirà anche se sono il segnale di una rinascita terrorista o solo il colpo di coda dell’estremismo islamico.
Quattro anni dopo, l’unica cosa rimasta uguale a prima è l’idiozia di chi allora si industriava a trovare una colpa americana o occidentale per giustificare il chiaro, aperto e inequivocabile attacco islamo-fascista a New York e Washington e quella di chi oggi prova a fare paragoni tra il giorno in cui bin Laden uccise deliberatamente 3 mila persone e l’uragano di New Orleans della settimana scorsa. L’idiozia odierna mette insieme le due “tragedie” americane e misura la reazione e le ripercussioni che l’una e l’altra hanno avuto sulla società e sulla politica di quel paese, con il solito obiettivo di accusare Bush di tutti i mali del mondo. Un’idiozia non solo per l’antiamericanismo da quattro soldi che esprime, ma soprattutto perché a quattro anni di distanza ignora che l’11 settembre non è stato affatto una “tragedia”, ma un atto di guerra. Ed è questo il motivo per cui, dopo Katrina, la politica e l’opinione pubblica americana reagiscono in modo diverso rispetto all’attacco dell’11 settembre e non perché allora Bush sapeva unire e ora non è più in grado di farlo. Questa è solo propaganda degli sciacalli ideologici che provano a trarre profitto politico dalla tragedia di New Orleans e peraltro non è detto che ci riescano (alla domanda su chi siano i responsabili dei problemi post uragano, il campione della Gallup ha risposto: nessuno 38 per cento; autorità locali e statali 25; apparati federali 18; presidente Bush 13). Del resto quante volte in questi quattro anni abbiamo letto che Bush era sull’orlo dell’impeachment, che questo o quello scandalo lo avrebbe abbattuto, che prima o poi sarebbe stato costretto a cambiare strategia, che aveva perso i dibattiti elettorali con Kerry, che il 2 novembre sarebbe stato cacciato dagli elettori? I giornali italiani il 3 novembre si sono spinti fino a titolare che Bush era stato davvero cacciato. Quante volte quella ventina di intellettuali neocon che hanno ispirato la risposta americana al radicalismo islamico sono stati dati per morti, finiti, accantonati? E’ successo sempre il contrario e quelle idee democratizzatrici e liberatrici non sono diventate soltanto la bandiera di Bush, quindi la politica ufficiale degli Stati Uniti, ma anche il mainstream americano. Quelle idee hanno conquistato il partito repubblicano tradizionalmente isolazionista, contagiato il partito democratico e convinto una parte di intellettuali liberal illuminati. La controprova del radicamento di questa dottrina si trova nel fatto che la Fondazione John Olin e la rivista Public Interest, due delle centrali di produzione d’idee del nuovo conservatorismo americano, hanno deciso di chiudere bottega dopo quarant’anni di attività non per crisi né per mancanza di fondi, ma per aver raggiunto l’obiettivo che si erano prefissati, quello cioè di influenzare e guidare il dibattito politico e intellettuale americano. La straordinaria inchiesta dei due corrispondenti dell’Economist raccolta nel libro “The right nation” (malamente tradotto in italiano con il titolo “La destra giusta”) dimostra come siano le idee dei nuovi conservatori quelle su cui oggi discute e s’interroga l’America sia di destra sia di sinistra. L’ultima conferma è arrivata domenica sotto forma di un saggio sulla Book Review del New York Times, il tempio di quel che rimane del pensiero liberal di sinistra. Il professore di Scienza politica di Yale, Jim Sleeper, intellettuale liberal, ha sostenuto la tesi secondo cui uno dei giganti del pensiero neocon, Allan Bloom, con il suo bestseller del 1987 “The closing of the american mind” non abbia scritto il manifesto delle guerre culturali della nuova destra americana, ma un libro di sinistra, un libro che gli intellettuali liberal leggono di nascosto. Come ha scritto la radical Ann Norton nel libro-denuncia sulle malefatte dei neocon (“Leo Strauss and the politcs of American Empire”) Bloom è il collega di Leo Strauss che più di Strauss ha avuto un’influenza nefasta sui neoconservatori. Quattro anni dopo l’11 settembre il libro di Bloom è sempre quello, la sinistra liberal no.

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