Milano. Come si fa a vincere in Iraq? Qual è la strategia per sconfiggere militarmente i terroristi, i fascisti islamici e i nostalgici del dittatore Saddam Hussein? Mentre procede il piano politico della strategia bushiana, in cinque delle diciotto province irachene le forze eversive aumentano la potenza di fuoco. Che fare, dunque? Al quesito risponde il saggio più letto e citato in questi giorni a Washington. “How to win in Iraq” è stato pubblicato sul nuovo numero di Foreign Affairs, la rivista dell’establishment americano non bushiano. L’articolo è destinato a far discuter così come, in passato, è capitato alle riflessioni di Bob Kagan sui rapporti transatlantici, di Kenneth Pollack sull’invasione dell’Iraq, di Paul Berman sulle ragioni antifasciste della guerra e di Nathan Sharansky sul sostegno alle forze democratiche nei regimi totalitari. Il saggio di Andrew Krepinevich arriva nel momento più caldo dello scontro intellettuale all’interno del campo Bush, ovvero quello tra gli ideologi della liberazione del medio oriente e il braccio armato guidato dal Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Bill Kristol e Bob Kagan, dalle colonne del Weekly Standard, chiedono ormai da due anni le dimissioni del capo del Pentagono, accusato fin dall’inizio di non aver inviato un numero adeguato di truppe, poi di aver voluto combattere una guerra al risparmio (“on the cheap”) e ora di voler trovare una via d’uscita che sia la più rapida possibile. Oggi il dibattito americano è in questi termini: c’è una minuscola minoranza radicale, sostenuta a gran voce dai giornali liberal e da un solo senatore democratico, che chiede il ritiro delle truppe ora e subito. Con loro ci sono l’ininfluente destra isolazionista e iper-conservatrice di Pat Buchanan e i neonazisti antisemiti di David Duke, gli stessi che a Crawford manifestano con la mamma pacifista Cindy Sheehan. C’è poi qualche intellettuale presenzialista, come lo storico Francis Fukuyama ieri sul New York Times, che cambia posizione a seconda dei sondaggi di opinione (l’autore di “La fine della storia” è alla quarta capriola sull’Iraq: ora è di nuovo contrario). La stragrande maggioranza del mondo politico e militare, di destra e di sinistra, si divide tra chi vincola il ritiro dall’Iraq alla creazione di un esercito iracheno in grado di difendere la giovane democrazia dall’attacco islamo-fascista e chi sostiene, invece, che una volta che gli iracheni avranno i numeri sufficienti per gestire la propria sicurezza, i confini e i pozzi di petrolio, la forza americana potrà finalmente essere liberata dai compiti di ordine pubblico e impiegata per sconfiggere sul piano militare i terroristi. La prima posizione è quella di Rumsfeld, di buona parte dei Democratici e della destra realista di scuola kissingeriana. La seconda è quella dei falchi neoconservatori, mai timidi sull’utilizzo della potenza militare americana. Bush occupa una posizione mediana, con una leggera pendenza a favore della dottrina che lui stesso ha elaborato: sa che senza un nuovo esercito democratico iracheno non potrà far tornare a casa i suoi, ma ripete sempre, come un paio di giorno fa in Idaho, che “il lavoro sarà terminato” soltanto quando i terroristi saranno sconfitti.
La strategia “a macchia d’olio”
Il saggio di Krepinevich, professore alla George Mason University e storico del Vietnam, individua una precisa strategia militare per sconfiggere i terroristi e accusa l’Amministrazione di non avere un piano coerente. La democrazia in Iraq è un obiettivo, non una strategia, scrive Krepinevich. L’addestramento degli iracheni è un piano di rientro, non la chiave per sconfiggere i terroristi, precisa il professore. Secondo Krepinevich, l’ipotesi di un ritiro è talmente disastrosa che non va neanche presa in considerazione. Ciò che serve è un nuovo approccio, un nuovo modo di combattere sul campo. Fin qui americani e iracheni hanno provato a scovare e uccidere i terroristi con l’idea di erodere la forza del nemico, eliminando più combattenti di quanti il nemico sia in grado di rimpiazzare. E’ ancora troppo presto per dire se questa strategia possa avere successo o no, ma la situazione attuale dimostra che non funziona bene. Krepinevich delinea una strategia opposta, chiamata “a macchia d’olio”, utilizzata negli anni 50 dai britannici in Malesia e dai filippini contro i i ribelli Huk. Invece che concentrarsi sulla caccia al nemico, la coalizione dovrebbe scegliere alcune città chiave e impegnarsi a garantirne la sicurezza, dapprima in aree limitate e circoscritte e poi, a poco a poco, allargandosi appunto “a macchia d’olio”. Gli iracheni nelle zone protette sarebbero liberi di collaborare e riuscirebbero ad apprezzare i benefici della nuova convivenza civile. Anche in America sarebbe più facile notare i progressi nei quartieri rigenerati. La strategia “a macchia d’olio” avrebbe un altro vantaggio: farebbe capire ai terroristi e al mondo che l’intervento in Iraq non è una toccata e fuga, piuttosto un impegno generazionale, lungo e graduale.