Camillo di Christian RoccaIl socialista Bush

Milano. A leggere i giornali internazionali, specie quelli italiani, si ha la sensazione anzi la certezza che George W. Bush sia il presidente di destra più di destra che ci possa essere, la quintessenza del pensiero conservatore, il paladino dello Stato minimo, il liberista selvaggio per antonomasia, un pericoloso estremista a tratti eversivo a tratti oscurantista. La prova che questo ritratto è soltanto una caricatura si trova nell’opposizione aperta, aspra e palese che il presidente affronta fin dall’inizio del suo mandato e che è letterarmente esplosa in questi giorni dopo l’ennesimo rilancio sulla ricostruzione di New Orleans cioè sull’ambizioso progetto di sfruttare la tragedia di Katrina per provare a curare l’endemica povertà del sud americano mai completamente liberatosi dal peso della segregazione razziale. Occorrono, per cominciare, 200 miliardi di dollari federali, un’eresia per il tradizionale pensiero conservatore e per un bilancio già ampiamente in rosso a causa delle grandi spese sociali decise da Bush. Alcuni conservatori sono contrari e basta, altri hanno scatenato una campagna parlamentare per recuperare quei soldi con tagli radicali ai fondi per le autostrade, i ponti e le infrastrutture recentemente approvati dal Congresso e accettati da Bush. Il Republican Study Committee dei deputati Mike Pence e Ron Lewis propone tagli per oltre 100 miliardi di dollari annui, mentre il settimanale Weekly Standard chiede di rinviare almeno di un anno l’entrata in vigore della riforma del Medicare, cioè il più enorme intervento pubblico americano da oltre 40 anni a oggi con cui, dal primo gennaio 2006, Washington fornirà medicine e cure gratuite agli anziani.
In cinque anni Bush ha fatto soltanto una cosa che è piaciuta a tutta la sua base elettorale: il taglio delle tasse. Una riduzione stratosferica che negli ultimi due anni però ha contribuito a far crescere il pil americano del 4 per cento e, di conseguenza, anche i ricavi fiscali federali di una cifra intorno al 15 per cento, la più ampia crescita annuale di tutti i tempi per le casse di Washington. Il taglio fiscale è temporaneo, ma Bush non rinuncia a trasformarlo in permanente.
Tutto il resto ha scontentato qualcuno. La riforma delle pensioni private è stata giudicata troppo radicale, mentre il grande progetto democratizzatore del mondo arabo e islamico, compreso il cambio di regime a Baghdad, è stato contestato da una fetta ampia del movimento conservatore che va da Pat Buchanan a Colin Powell, dai realisti kissingeriani fino ai principali esponenti dell’Amministrazione di Bush senior. La destra sociale non ha gradito la posizione presidenziale a favore delle unioni civili omosessuali e reputa un compromesso al ribasso non aver vietato la ricerca scientifica sulle staminali embrionali. Ad altri conservatori non è andato giù il raddoppio degli aiuti umanitari ai paesi in via di sviluppo, né la proposta di sanatoria e di legalizzazione dell’immigrazione clandestina, tutta roba giudicata liberal e di sinistra. Come presidente della Corte suprema non ha nominato un giudice militante, ma John Roberts cioè un conservatore moderato che pare non abbia intenzione di ribaltare la sentenza del 1973 che ha liberalizzato l’aborto. Anche la legge “No child left behind”, ovvero il gigantesco programma di recupero scolastico promosso insieme con Ted Kennedy, ha fatto mugugnare la destra fiscal conservative che, come Reagan, avrebbe addirittura voluto abolire il ministero dell’Istruzione. Bush ha preso in prestito dai democratici l’idea di un ministero della Homeland Security, aumentando ancora di più il peso di Washington. Tutto ciò ha fatto scrivere ad Ann Coulter (“la Michael Moore di destra”, secondo la definizione di Andrew Sullivan) che il successo elettorale di Bush si è trasformato in una vittoria del programma politico della sinistra liberal.

Il conservatorismo compassionevole
Nella divisione tradizionale della politica americana, i repubblicani si battono per limitare l’intervento dello Stato e abbassare le tasse, mentre i democratici chiedono più imposte per regolamentare la vita sociale e proteggere maggiormente i cittadini. Già Bill Clinton aveva ribaltato questo schema, riformando ovvero tagliando il welfare state, ma lo ha fatto perché doveva fare i conti con un Congresso a maggioranza repubblicana eletto sulla base di un “Contratto con l’America” che imponeva tagli alla spesa pubblica. Bush, invece, ha fatto tutto da solo. Nonostante abbia una maggioranza ampia sia al Senato sia alla Camera, è il presidente americano che più di ogni altro ha aumentato la spesa pubblica e sociale, dall’istruzione alla sanità, dall’agricoltura fino al progetto kennedyano di conquistare Marte. Il New York Sun, quotidiano conservatore, nel giro di pochi mesi ha titolato il suo editoriale una volta “John Fitzgerald Bush”, un’altra “Lyndon Baynes Bush” e infine “Franklin Delano Bush”, ogni volta per segnalare una somiglianza delle politiche di Bush con la Nuova Frontiera di Kennedy, il New Deal di Roosevelt e la Great Society di Johnson. Sullivan sul Times di domenica ha scritto che Bush è un “socialista” a tutti gli effetti. Anche senza le spese militari, infatti, la Casa Bianca ha aumentato il bilancio interno del 35 per cento e in 5 anni ha creato un debito pubblico di oltre mille miliardi di dollari. Nonostante ciò Bush continua a rinnegare l’adagio reaganiano secondo cui “la spesa pubblica non è la soluzione, ma il problema” e a dimostrare che il “conservatorismo compassionevole” con cui vinse nel 2000 non era soltanto uno slogan.

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