Quattrocentocinquantaseimila e duecentosessantatre iscritti newyorchesi al partito democratico hanno scelto il candidato liberal da contrapporre l’8 novembre prossimo al sindaco repubblicano Mike Bloomberg. Lo sfortunato è Fernando Ferrer. Di origini portoricane, 55 anni, ex presidente della circorscrizione del Bronx, grigio esponente dell’ala burocratica del partito, Ferrer ha ottenuto il 39 per cento dei consensi e non ha alcuna speranza di spodestare il sindaco Bloomberg da City Hall, nonostante l’appoggio esplicito del New York Times e di vari giornali ispanici. Non è colpa sua. Non è nemmeno un problema di sondaggi sfavorevoli che, a un mese e mezzo dal voto, lo vedono sotto di una percentuale compresa tra il 12 e il 22 per cento. A condannarlo non è neanche la buona performance che può vantare il sindaco Bloomberg, ovvero il basso tasso di criminalità ottenuto senza le ruvidità poliziesche degli anni di Rudy Giuliani nonché il miglioramento dell’istruzione pubblica. Qualche argomento contro Bloomberg ci sarebbe: dal pasticcio della ricostruzione di Ground Zero, alla candidatura olimpica con annesso progetto di stadio sulla west side, fino alla promessa di non aumentare le tasse mantenuta soltanto per qualche mese.
Ci deve pur essere altro a spiegare il paradosso di una delle città più liberal del mondo che da 12 anni continua a essere guidata da sindaci repubblicani eletti dai democratici. New York è così democratica che a molte delle cariche elettive cittadine e statali i repubblicani non si presentano nemmeno. Non è raro che tra i pochi elettori conservatori si trovi chi si registra come democratico in modo da poter votare, e quindi influire, nelle uniche elezioni che contano, le primarie dei democratici che scelgono chi contrapporre al perdente repubblicano di turno.
I due senatori a Washington sono democratici, Charles Schumer e Hillary Clinton, ma nessuno considera l’ex first lady una newyorchese. Un anno fa Manhattan diede a John Kerry l’80 per cento dei consensi, poco più di quanto fecero gli altri quattro quartieri della città, con l’eccezione di Staten Island. La stessa cosa succede ad Albany, la capitale dello Stato di New York, dal 1995 guidata dal repubblicano George Pataki.
Grazie al contemporaneo ritiro di Pataki e alla candidatura dell’ex procuratore generale, Eliot Spitzer, a novembre del 2006 il governatore di New York tornerà a essere democratico. Al Comune non succederà. Certo, Bloomberg era democratico fino a pochi mesi prima di scendere in campo e c’è chi, tra i repubblicani, lo accusa di essere un “Rino”, un “republican in name only”, un repubblicano soltanto di nome e non di fatto. Ma non è il solo tra i conservatori a godere o soffrire, a seconda di chi lo dice, questa nomea. Gli altri “Rino” sono pezzi da novanta come Rudy Giuliani, Arnold Schwarzenegger, Pataki, John McCain e tre su quattro sono possibili candidati alle presidenziali del 2008 (solo Schwarzenegger non può, perché non è nato nel territorio americano). Dire che in fondo il sindaco è un liberal nell’animo non basta a spiegare il fenomeno di una città che non riesce a esprimere pesonalità liberal di livello nazionale, anche perché non riuscirebbe a nascondere il fatto che il principale finanziatore della campagna elettorale di George W. Bush, con 7 milioni di dollari sganciati per la Convention del partito a New York, è proprio lui, Bloomberg. C’è chi fa notare come parecchi democratici abbiano annunciato di appoggiare Ferrer. Altri, però, e tra questi lo stesso Bloomberg, spiegano che si tratta di un sostegno dovuto, che non avrà seguito nel segreto dell’urna.
Il povero Ferrer va avanti. La chiave della sua annunciata sconfitta si trova nel progetto perfettamente liberal che propone agli elettori: aumento delle tasse comunali di 2 miliardi di dollari a carico dei proprietari immobiliari e degli investitori di Wall Street. I benestanti di Manhattan odiano la destra e adorano tutto ciò che è radical chic, compresa la sinistra arrabbiata alla Howard Dean. Ma quando in gioco ci sono cose importanti come i quattrini abbandonano Dean e scelgono Kerry, come successe alle primarie presidenziali del 2004. Poi, certo, preferiscono Kerry a Bush. Ma se il candidato del proprio partito vuole tassare i favolosi appartamenti di Manhattan e inoltre appare debole in tema di sicurezza, i liberal di Manhattan votano il sindaco repubblicano senza affatto turarsi il naso.
20 Settembre 2005