Milano. Ventidue mesi di indagini e la giornata di ieri davanti al Grand Jury non sono bastati a dirimere il complicato Ciagate, ovvero l’inchiesta del procuratore speciale Patrick Fitzgerald, nominato dall’Amministrazione Bush per stabilire se uno o più pubblici ufficiali avessero violato leggi federali e, in caso affermativo, essere formalmente accusati in un successivo processo ordinario. Ieri sera il procuratore ha presentato le sue conclusioni alla Giuria, ma la decisione è stata rinviata a domani, all’ultimo giorno utile prima della scadenza dell’inchiesta federale. Resta il dramma politico che da due giorni ha al centro il vicepresidente Dick Cheney, l’uomo nero di Bush.
Sullo sfondo c’è la decisione di cambiare il regime di Saddam, ma nello specifico il procuratore Fitzgerald deve stabilire se qualcuno dell’Amministrazione abbia violato o meno il divieto di fornire alla stampa informazioni riservate, tra cui quella dello status di agente segreto di Valerie Plame, moglie di un ex ambasciatore, Joe Wilson, che nel luglio 2003 criticò pubblicamente le giustificazioni fornite da Bush per convincere gli americani a destituire Saddam.
Domani la questione si potrebbe concludere in tre modi: atti d’accusa formali contro un paio di alti funzionari della Casa Bianca, nessun atto d’accusa o, infine, la richiesta di un ulteriore periodo di indagini. Quest’ultima ipotesi, avvalorata dagli interrogatori dell’ultima ora ai vicini di casa di Valerie Plame, appare improbabile anche perché un anno fa Fitzgerald aveva già detto che per completare l’inchiesta gli mancavano soltanto le testimonianze di Judith Miller e di Matthew Cooper, due dei cronisti che pur non avendo svelato il nome di Valerie Plame si occuparono del caso. Quelle due testimonianze sono arrivate. Poco probabile anche l’ipotesi migliore per la Casa Bianca, cioè che l’inchiesta si concluda con un nulla di fatto. Le indiscrezioni puntano alla prima ipotesi: domani qualcuno sarà formalmente accusato. I sospetti cadono su Lewis “Scooter” Libby e Karl Rove, il capo dello staff di Dick Cheney e il vicecapo dello staff di George W. Bush. Si vocifera che Fitzgerald abbia già consegnato ai loro avvocati due “target letter” di preannuncio dell’atto d’accusa e che abbia preso tempo e deciso di rinviare la decisione a domani proprio per avviare una trattativa di patteggiamento dell’ultimo momento.
Tre ipotesi di soluzione
Le ipotesi sono tre. La più grave è quella di conspiracy, un’accusa a un folto gruppo di consiglieri di Bush di aver orchestrato una campagna per screditare l’ambasciatore Joe Wilson, svelando alla stampa lo status di agente della Cia di sua moglie Valerie Plame. In questo caso le conseguenze per la Casa Bianca sarebbero devastanti. Sebbene sia l’ipotesi più di moda tra i giornalisti liberal, sembra improbabile che Fitzgerald si possa muovere in questa direzione. C’è l’ipotesi meno complicata per la Casa Bianca che un singolo funzionario, in questo caso Libby, abbia svelato il nome di Plame, ma è possibile che Fitzgerald non accusi nessuno sulla soffiata ai giornali dell’identità dell’agente Cia, o perché il reato non è stato commesso oppure perché Valerie Plame non era un’agente la cui identità fosse segreta. Al di là dei dettagli giuridici, la differenza tra le due ipotesi è quella tra un complotto diffamatorio nei confronti di chi criticava l’Amministrazione e una campagna di difesa del presidente da accuse giudicate false. Tanto più che le critiche di Wilson, per sua stessa ammissione, si sono dimostrate poco accurate.
Libby e Rove potrebbero essere accusati di ostruzione alla giustizia o di falsa testimonianza, vale a dire di aver mentito o non raccontato tutta la verità davanti al procuratore. Col paradosso, come successe a Bill Clinton ai tempi del Sexgate, di essere colpevoli non della vicenda di cui si discute, ma di un reato commesso a causa dell’inchiesta che li ha scagionati dal reato per cui era stata creata.
Soltanto ieri, i due principali quotidiani americani, il New York Times e il Washington Post, definivano Cheney “la figura centrale dei complotti più oscuri” nonché “il vicepresidente favorevole alla tortura”. Quando gli gira bene, Cheney è semplicemente l’anima nera di Bush, l’uomo che governa il paese sempre, e non solo quando il presidente trascorre lunghe vacanze a Crawford o è impegnato ad ascoltare l’iPod sulla sella di una mountain bike. Viceversa, quando butta male, Cheney è dipinto come il grande burattinaio di ogni complotto mondiale, l’ideatore di trame segrete e di cospirazioni criminali, il braccio armato delle multinazionali, il curatore degli interessi petroliferi, l’Attila dell’ambiente e dei diritti civili, il principe dei bugiardi e il sanguinario capo di una giunta militare e golpista (quest’ultima è di Gore Vidal).
Tanto potere, tanto odio
Due giorni fa l’ex capo dello staff di Colin Powell, Lawrence Wilkerson, ha scritto sul Los Angeles Times che Cheney guida una “cabala” che usa metodi “più da dittatura che da democrazia”. L’editorialista disperata Maureen Dowd, divina curatrice di rubrica bisettimanale sul New York Times, lo chiama semplicemente “Vice”, che in inglese oltre che vicepresidente vuol dire anche “vizio” con la “V” maiuscola. Il settimanale liberal The New Republic, un paio di anni fa lo definì “the radical”, sottolineando una certa continuità di pensiero tra l’antitotalitarismo dei tempi di Ronald Reagan e l’idealismo post 11 settembre.
Ma è prevalsa la versione nera di Cheney. Alla base di ogni pettegolezzo sul suo conto ci sono la passione per l’azione dietro le quinte e il curriculum. Cheney è accusato di aver guidato il suo ufficio con metodi segreti, oscuri e misteriosi, anche se stavolta i suoi uomini rischiano il posto per il vizietto opposto. Cheney è uno dei più navigati uomini di governo di Washington: cinque volte parlamentare del Wyoming, capo dello staff del presidente Gerald Ford e segretario alla Difesa con Bush senior. Quando fu scelto dall’inesperto George W. Bush come suo vice, tutti hanno pensato a una specie di tutela del vice sul presidente. Curiosa la procedura di selezione di Cheney. Bush gli aveva affidato il compito di trovare il miglior vicepresidente possibile e Cheney, dopo lunghe indagini, si presentò di persona con la risposta.
Mai un vicepresidente americano aveva concentrato su di sé tanto potere e tanto odio. Eppure è paradossale che tutto questo potere nella mani di un cospiratore di tale stazza non si concretizzerà nel principale e spesso unico obiettivo di potere che inseguono tutti i vicepresidenti: la successione al capo. Cheney, infatti, ha sempre detto che non gli interessa candidarsi alla presidenza.