Milano. La soddisfazione dell’Amministrazione Bush è contenuta, mentre i grandi giornali liberal mostrano i primi imbarazzati sorrisi per il successo del referendum costituzionale iracheno e, di conseguenza, della politica mediorientale di Bush. Non si conoscono ancora i risultati definitivi nelle regioni a maggioranza sunnita, ma è molto probabile che la Costituzione otterrà i voti necessari. In ogni caso, poco male: il risultato è già di per sé straordinario, dicono a Washington, perché a differenza del voto per l’Assemblea Nazionale del 30 gennaio, questa volta i sunniti hanno partecipato da protagonisti nel processo politico, invece che boicottarlo. E se la Costituzione fosse respinta col no dei due terzi degli elettori di tre province, il cammino democratico del nuovo Iraq continuerebbe ugualmente col voto del 15 dicembre. A fine anno, infatti, si voterà per il Parlamento, il quale dovrà eleggere entro il 31 un nuovo governo non più transitorio e quindi definire gli aspetti costituzionali lasciati aperti dalla Costituzione sottoposta sabato al voto popolare (oppure riscrivere la Carta, se sabato fosse stata bocciata). A Washington si ragiona come se la Costituzione fosse in vigore e si cominciano a studiare le prossime mosse, confidando su una costante che soltanto due anni fa sembrava di improbabile realizzazione (“Gli iracheni hanno esercitato un fondamentale diritto democratico che solo qualche anno fa sembrava inconcepibile”, ha commentato ieri il New York Times).
C’è, infatti, che gli iracheni in pochi mesi sono riusciti a rispettare tutte le scadenze imposte dall’Onu e dalla coalizione con l’accordo del 15 novembre 2003, cioè la formazione di un governo provvisorio di solidarietà nazionale, l’adozione di una Costituzione transitoria (novembre 2003), il ritorno della sovranità (30 giugno 2004), la convocazione delle elezioni per l’Assemblea costituente (30 gennaio 2005), la nascita del primo governo democratico a interim (aprile 2005), l’approvazione di una Costituzione democratica e non fondamentalista (agosto 2005), il coinvolgimento dei sunniti (ottobre 2005), la conferma popolare di sabato e, nei prossimi giorni, il processo a Saddam.
Le novità hanno convinto un analista critico delle politiche bushiane come Fareed Zakaria, di Newsweek, a lodare le ultime mosse della Casa Bianca coordinate sul campo dall’ambasciatore Zalmay Khalilzad, già artefice della transizione costituzionale afghana nonché firmatario nel 1998 dell’appello con cui il Project for a new american century chiedeva la destituzione di Saddam. Khalilzad è un americano di origini afghane che ha studiato matematica a Chicago con Paul Wolfowitz e Richard Perle, nell’ambiente culturale influenzato dalle idee di Leo Strauss e dalle lezioni di Allan Bloom e di Albert Wohlstetter. Particolari biografici che smentiscono la tesi di moda secondo cui in Iraq ora le cose vanno meglio perché è stata abbandonata l’ideologia neocon a vantaggio del pragmatismo realista del passato.
Piuttosto è vero il contrario: oggi appare evidente a molti analisti che il grande errore politico in Iraq sia stato quello di non cedere la sovranità agli iracheni subito dopo la caduta del regime e di provare a governare il paese direttamente con Paul Bremer e i suoi piani preconfezionati dai centri studi del Dipartimento di Stato.
Il nuovo Parlamento sarà eletto con una nuova legge elettorale, non più centrata sulle liste come accadde a gennaio su suggerimento dell’Onu, ma sul territorio, in modo da poter dare rappresentanza a quelle province sunnite dove si registrerà un’affluenza media più bassa. Il Parlamento dovrà far nascere una seconda Camera, stabilire le modalità di selezione della Corte Suprema, l’unico organo cui sarà assegnato il compito di interpretare la legge. Infine dovrà avviare le procedure di formazione dei governi locali, i quali non avranno competenza su difesa, tasse e politica estera. Il petrolio appartiene a tutti gli iracheni, dice la nuova Costituzione che garantisce “l’unità dell’Iraq”.
18 Ottobre 2005