Camillo di Christian RoccaIl petrolio di tutti unisce e non divide il nuovo Iraq federale

Nella nuova Costituzione irachena c’è un articolo incomprensibilmente sfuggito alle analisi dei commentatori occidentali, quegli stessi osservatori che ogni giorno spiegano come la prima Carta democratica del mondo arabo finirà per provocare una tripartizione etnico-petrolifera del paese. La tesi si basa su un’informazione che non trova riscontri nelle nuove leggi irachene. Non è vero, cioè, che il nuovo modello federale concepito dall’Assemblea nazionale di Baghdad decentralizzi la sovranità sul petrolio iracheno, favorendo il sud sciita e il nord curdo, cioè le zone ricche di petrolio, ed escludendo dai ricavi petroliferi il centro sunnita privo di pozzi e di giacimenti.
E’ sufficiente leggere il breve e chiarissimo articolo 108 della nuova Costituzione per scoprire che è vero il contrario: “Il petrolio e il gas sono di proprietà di tutto il popolo dell’Iraq in tutte le regioni e in tutti i governatorati”. Punto. Il principio, già denominato “oil-to-the-people”, è rivoluzionario in sé ma in modo particolare per il mondo arabo: il petrolio appartiene al popolo, non allo Stato, a ogni singolo cittadino, uomo, donna o bambino, non importa se sunnita, sciita, curdo, caldeo o turcomanno. Non solo, quindi, il petrolio è di tutti, ma diventa il collante dell’unità nazionale.
L’articolo successivo, il 109, definisce la questione e rimanda a una legge attuativa che sarà approvata dal Parlamento che sarà eletto il prossimo 15 dicembre: “Il governo federale, con i governi regionali produttori, dovrà impegnarsi a gestire il petrolio e il gas estratti dagli attuali giacimenti facendo in modo che i ricavi siano distribuiti in modo equo in tutte le parti del paese in proporzione alla popolazione”. Una norma, dunque, ancora più garantista per le aree più povere del paese.
L’articolo continua specificando che “una certa quota” di ricavi, ma solo “per un determinato periodo di tempo”, dovrà essere riservata alle regioni sfavorite ingiustamente dal precendente regime, ma pur sempre in modo da assicurare “uno sviluppo bilanciato nelle diverse aree del paese”.
Tutto ciò sarà regolato dalla legge. Come? L’idea di inserire questi articoli nella Costituzione è di Ahmed Chalabi, il leader liberale iracheno che negli anni Novanta convinse Bill Clinton a finanziare il regime change a Baghdad e poi, nei mesi precedenti la guerra a Saddam, diventò l’amico iracheno del Pentagono. Odiato dalla Cia e dal Dipartimento di Stato, cioè dalle due istituzioni americane contrarie all’intervento in Iraq, Chalabi è caduto in disgrazia ed è stato prima accusato di aver passato informazioni false agli apparati americani e poi di non avere alcun radicamento nella società irachena. Senza più l’appoggio americano, Chalabi è riemerso molto più forte di prima: è stato completamente assolto dalla Commissione bipartisan del Senato che indaga sul fallimento dei servizi segreti ed è stato l’artefice del grande accordo politico tra i partiti sciiti che ha condotto alla vittoria elettorale del 30 gennaio. Oggi è il vicepremier democratico del nuovo Iraq, nonché coordinatore dei ministeri che gestiscono le risorse energetiche.
L’idea di Chalabi è quella di replicare in Iraq il modello dell’Alaska Permanent Fund, un fondo di investimenti creato nel 1978 al fine di redistribuire i dividendi petroliferi a ogni singolo cittadino dello Stato. Il fondo investe sui mercati le royalties delle vendite petrolifere e ogni anno paga agli azionisti, cioè ai cittadini, i dividendi (quest’anno 845 dollari, ma solitamente intorno a 1900 dollari).
In Iraq “la soluzione Alaska” avrebbe il vantaggio di sviare “la maledizione del petrolio” che colpisce i grandi paesi produttori di greggio, ricchi, ricchissimi, eppure con un tessuto sociale tra i più poveri e devastati del mondo. “I soldi del petrolio producono corruzione e incentivi per gente avida che punta a un controllo dittatoriale dello Stato”, ha scritto Michael Barone, il più autorevole esperto di politica americana. L’Arabia Saudita è un patriarcato dove i sudditi non hanno alcun diritto, anche perché non pagano le tasse. Il Venezuela è una fonte di instabilità internazionale a causa del suo petrolio, mentre la Nigeria è uno dei paesi più corrotti del mondo. Diverso il caso della Norvegia, dove lo Stato paga il welfare e le pensioni con i ricavi petroliferi.
La chiave, dunque, è quella di togliere allo Stato la proprietà del petrolio, far defluire il flusso di denaro dalle casse centrali e redistribuirlo ai legittimi proprietari, cioè ai cittadini. Gli iracheni diventeranno singolarmente e automaticamente padroni di una quota della ricchezza nazionale, una quota inalienabile e non trasferibile.
I futuri dividendi potrebbero servire a garantire prestiti e mutui per aprire piccole attività, mentre l’assegno mensile o annuale rilancerebbe i consumi e l’economia. L’Iraq ha una produzione petrolifera intorno ai 20 miliardi di dollari annui, questo vuol dire che se fossero integralmente ridistribuiti ogni iracheno riceverebbe poco meno di mille dollari l’anno, metà dello stipendio di un impiegato medio. Ci sono diverse variazioni tecniche dello schema e un team di esperti ci sta lavorando, ma la cosa importante è il principio: il petrolio non è un assett dello Stato e dei suoi governanti, ma del popolo e della società civile.
Lo Stato, ovviamente, dovrebbe ricorrere alla tassazione per poter funzionare e garantire i servizi, ma solo così – chiedendo i soldi ai cittadini – sarà finalmente ritenuto responsabile delle proprie scelte. E l’essenza del governo democratico, oltre che il fondamento del contratto sociale. L’idea piace anche agli americani, tanto che circola con favore sul New York Times. Il motivo è semplice: la distribuzione dei proventi petroliferi ai cittadini dimostrerebbe senza ambiguità che Washington non ha altro interesse sul petrolio iracheno se non quello di comprarlo a prezzi di mercato.

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