New York. La guerra in Iraq complica la vita alla sinistra americana, non soltanto a George W. Bush. E continua a farle compiere piroette difficili da seguire quotidianamente. Il partito democratico è spaccato a metà, una parte è convinta che la guerra sia ormai persa e spera che il discontento popolare possa essere capitalizzato alle elezioni di metà mandato del prossimo anno. L’altra parte è certa che queste dichiarazioni disfattiste facciano piuttosto perdere le elezioni, ridipingendo i democratici come il partito affetto dalla sindrome del Vietnam e incapace di difendere il paese. Il presidente del partito, Howard Dean, ha detto che in Iraq non si può vincere. La leader alla Camera, Nancy Pelosi, appoggia la mozione per il ritiro, ma il suo vice sostiene che il ritiro è una follia. I repubblicani, terrorizzati dall’eventualità di perdere le elezioni, cominciano a riacquistare fiducia dopo le enormi difficoltà degli ultimi mesi, e preparano spot televisivi con i democratici che sventolano bandiera bianca. I sondaggi, improvvisamente, mostrano un’impennata di Bush di ben cinque punti. John Edwards, ex candidato vicepresidente di Kerry, si pente pubblicamente di aver votato a favore della guerra, mentre il suo predecessore Joe Lieberman, ovvero l’uomo che nel 2000 non è entrato alla Casa Bianca al posto di Dick Cheney soltanto per un pugno di schede mal bucherellate in Florida, è così simpatetico con la strategia bushiana da essere pronto a sostituire Donald Rumsfeld al Pentagono.
A sinistra un ripensamento sull’Iraq c’è, soprattutto tra chi due o tre anni fa si disse favorevole alla destituzione del dittatore iracheno. Ed è bizzarro che accada proprio mentre in Europa, e in Italia in particolare, la sinistra comincia a valutare gli effetti positivi di Iraqi Freedom, ovvero i primi passi verso la democrazia e i successi politici raggiunti a Baghdad. Il giornalista del New Yorker, George Packer, resta convinto delle ragioni democratiche e umanitarie dell’intervento, ma in “The assassin’s gate” racconta il fallimento di programmazione del Pentagono e gli errori del dopoguerra che lo fanno dubitare della sua scelta. L’unica che non cede è Hillary Clinton. Sa che per vincere nel 2008 deve mostrarsi credibile sulla sicurezza nazionale, così critica Bush per la gestione bellica, ma non lo accusa di aver ingannato il paese né discute la destituzione di Saddam. Sostiene il progetto di legge che criminalizza chi brucia la bandiera e per la sinistra radicale guidata dalla Peace Mom Cindy Sheehan, Hillòary è uguale a Bush.
“La democratizzazione non è una crociata”
A metà strada sta John Kerry. Nei giorni scorsi aveva detto che gli americani “terrorizzano” gli iracheni ma giovedì, al Council on Foreign Relations di New York, ha presentato il suo piano “per una vera sicurezza nel mondo post 11 settembre”. La tesi di Kerry è che le politiche di Bush abbiano danneggiato l’America, ma in alternativa offre poco più delle cose che sta già tentando l’Amministrazione Bush: responsabilizzare gli iracheni e i moderati del mondo arabo. Kerry non vuole fissare un calendario rigido e automatico di disimpegno. Critica l’arroganza unilaterale di Bush e propone il modello bipartisan e multilaterale di Harry Truman (il presidente che però sganciò l’atomica su Hiroshima e Nagasaki). Kerry non ha mai citato l’Iran (e il moderatore gliel’ha fatto notare) e ha dipinto la Cina come un alleato affidabile, senza spendere una parola per i diritti umani e la democrazia a Pechino. A una domanda del Foglio, Kerry si è mostrato più scettico di Bush sul presente democratico iracheno. “La democratizzazione non è una crociata, e può avere successo soltanto se guidata da personaggi come Hamid Karzai in Afghanistan, Viktor Yushenko in Ucraina e Lech Walesa in Polonia”. Il Foglio gli ha chiesto per quale motivo non considerasse la nuova leadership democratica irachena alla pari di quella afghana o ucraina o polacca. “Perché non sappiamo ancora da chi è composta”, ha risposto Kerry. Gli è stato fatto notare che, in verità, lo sappiamo molto bene da chi è composta, visto che è stata scelta dal popolo iracheno. “Il popolo iracheno è stato molto coraggioso a sfidare le minacce dei terroristi – ha detto Kerry – merita una leadership adeguata”. Una leadership che, nonostante gli iracheni si siano scelti da sé, a Kerry non va bene: “Alcuni meritano la fiducia del popolo iracheno, altri no”. Una sfiducia nella scelte democratiche irachene che fa crollare l’intera impostazione del suo piano. “La sinistra liberal è diventata realista e ha abbandonato l’idealismo progressista”, ha scritto Lawrence Kaplan sulla rivista liberal The New Republic.
10 Dicembre 2005