La sondaggistica non è materia che appassiona queste colonne, né se il polso dell’opinione pubblica sminuisce le cose che scriviamo né se le conferma. Le inchieste demoscopiche sono strumenti utili, ma strumenti devono rimanere, non oracoli. Il vero leader politico non è chi segue gli andamenti dei sondaggi, ma chi li determina. George W. Bush fa parte di quest’ultima categoria. I giornali di tutto il mondo hanno consumato pagine su pagine per raccontare e commentare il crollo verticale del gradimento di Bush tra i suoi connazionali, come a leggervi un segno evidente dell’insuccesso in medio oriente e degli errori in Iraq. La stessa cosa accadde prima delle elezioni presidenziali del 2004. Anche allora i sondaggi erano terribili per Bush, specie dopo i tre dibattiti elettorali che l’unanimità della stampa liberal aveva deciso fossero stati vinti da John Kerry. In inglese il fenomeno si chiama wishful thinking, una specie di pio desiderio giornalistico che più viene scritto, più sembra vero.
A Bush è bastato parlare al paese cinque volte in diciannove giorni per ribaltare i sondaggi sfavorevoli. Secondo gli ultimissimi dati Washington Post/Abc, dal 35 per cento di gradimento, cioè da un incredibile record negativo, Bush è passato d’un colpo al 47 per cento. Anche le altre voci hanno registrato balzi in avanti di 7 o 10 punti. La sua gestione dell’Iraq è gradita al 46 per cento, mentre il 56 approva il modo in cui sta combattendo il terrorismo. Il 54 per cento degli americani pensa che la guerra abbia migliorato la sicurezza americana, mentre il 65 per cento pensa che gli Stati Uniti stiano facendo progressi significativi nell’operazione di portare la democrazia in Iraq. Bush ha commesso vari errori e ha saputo correggerli dimostrando che il suo piano iracheno non era affatto ideologico semmai adattabile alla realtà sul campo. Ma è ancora più evidente che abbia sbagliato, e parecchio, a non spiegare con più costanza, con più precisione e con più passione il suo progetto di vittoria e i progressi compiuti in Iraq. Ora che l’ha fatto e che gli iracheni hanno avviato il cammino democratico, il vento è tornato alle sue spalle, anche se quelli che si mostrano refrattari sostengono che il balzo sia da attribuire al buon andamento dell’economia (e sono gli stessi che giudicavano folle l’idea di governare col deficit e tagliando le tasse). Alla svolta hanno involontariamente contribuito i democratici, Hillary Clinton esclusa, con il tipico disfattismo post Vietnam che da trent’anni li condanna a una sconfitta dietro l’altra. Di certo c’è che l’America ha un presidente serio, dotato di una leadership salda e di una strategia chiara, ampia e robusta che sebbene non piaccia agli editorialisti liberal ottiene riscontri positivi sul campo e talvolta anche nei sondaggi.
21 Dicembre 2005