Washington. Christopher Hitchens è il saggista e scrittore angloamericano che per primo ha definito “fascisti islamici” i terroristi e i fondamentalisti musulmani che l’11 settembre 2001 hanno attaccato gli Stati Uniti. Nel suo primo articolo pubblicato dopo la caduta delle Torri scrisse che ciò cui avevamo assistito era un atto di “fascismo con un volto islamico”, recuperando una famosa espressione di Alexander Dubcek sul “socialismo dal volto umano” poi ripresa da Susan Sontag per descrivere la repressione sovietica in Polonia come una forma di “fascismo dal volto umano”. Hitchens, detto Hitch dagli amici, è uno dei più vivaci sostenitori della politica del regime change in Iraq, che sostiene da sinistra.
Nel corso di una lunga intervista col Foglio nella sua bella, borghese e bohémienne casa di Washington, Hitchens ha fumato una sigaretta dietro l’altra ma non ha toccato un goccio di whisky, solo caffè, nonostante i suoi avversari ormai ricorrano spesso agli insulti di natura alcolica per ribattere ai suoi argomenti. Hitchens ha tutto dell’uomo di sinistra: il pedigree, l’aspetto, il linguaggio e le frequentazioni. Il suo “eroe intellettuale” è George Orwell. Gore Vidal lo considerava il suo erede. Susan Sontag era la sua amica del cuore. Oggi i suoi compagni sono i rivoluzionari del Kurdistan e dell’Iraq liberato, uno su tutti Kanan Makiya, ma anche Salman Rushdie, Martin Amis e Ian McEwan, scrittori liberal e di sinistra che, come lui, in modi e per ragioni diverse, hanno affrontato il tema del fondamentalismo islamico. Di Rushdie si sa. Martin Amis sta ultimando un romanzo sulla dimensione sessuofoba dei fondamentalisti islamici, ossessionati dalla repressione sessuale e dall’odio per la donna, ma anche affascinati dalle vergini e dalla purezza femminile. McEwan, invece, con il suo ultimo romanzo “Sabato”, si è immedesimato nel tipico liberal europeo, catturandone la schizofrenia politica rispetto alla guerra e al regime di Saddam.
La mattina dell’11 settembre 2001, Hitchens si trovava sulla costa occidentale degli Stati Uniti, nello Stato di Washington, per ricordare, anzi per denunciare, l’11 settembre fino ad allora più famoso della storia recente americana: quello del 1973, ovvero il giorno del golpe con cui il generale Augusto Pinochet, non ostacolato dalla Casa Bianca, rimosse il presidente cileno Salvador Allende per fermare l’espansionismo sovietico in Sudamerica.
Nell’attico dove vive con la moglie Carol Blue e con la figlia Antonia, Hitchens racconta al Foglio che la sera del 10 settembre 2001 aveva tenuto un discorso alla Fondazione dedicata a Henry Scoop Jackson, l’ex deputato e senatore democratico ma in realtà neoconservatore alle cui dipendenze si fecero le ossa Richard Perle, Paul Wolfowitz ed Elliot Abrahms. Hitchens è un intellettuale marxista, uno che chiama i suoi amici “compagni”, uno che ha scritto libri contro Madre Teresa, uno che a quel tempo aveva una rubrica su The Nation, la rivista politica dell’ortodossia di sinistra americana. “Rimasi sorpreso – dice Hitchens – quando mi chiamarono a presentare il libro con cui chiedevo l’incriminazione e l’arresto di Henry Kissinger per crimini di guerra, ma poi scoprii che Jackson in realtà odiava Kissinger perché aveva suggerito al presidente Gerald Ford di non ricevere alla Casa Bianca il dissidente sovietico Aleksandr Solgenitsin perché avrebbe potuto infastidire Breznev. Jackson, inoltre, si scontrava con Kissinger perché il segretario di Stato giudicava sbagliata la politica volta a liberare gli ebrei russi, i refuznik, in quanto avrebbe nuociuto alla distensione con i sovietici. Esattamente la stessa cosa che dicono oggi i realisti a proposito della democrazia in Iraq e della politica del regime change”, ricorda Hitchens.
Hitchens non può credere che ci siano compagni di sinistra incapaci di vedere la differenza tra questi due 11 settembre: “In Cile gli Stati Uniti aiutarono a rimuovere un governo eletto e a distruggere un sistema democratico, sostituendolo con una forma odiosa di dittatura militare. Un crimine che in quegli anni compirono anche in Grecia, in Indonesia, in Uruguay, in Brasile e a Cipro. Ora, invece, hanno fatto il contrario: hanno sostituito due regimi totalitari e fascisti con governi eletti democratici”. Hitchens ricorda anche il caso di Timor Est, “il genocidio dimenticato dei cristiani, la battaglia più importante per la sinistra americana negli anni Novanta, tanto che perfino Noam Chomsky chiese l’intervento armato, poi arrivato grazie alle truppe americane e australiane. Ebbene, il leader di quella resistenza, José Ramos-Horta, poi premio Nobel per la pace, si è detto subito favorevole alla rimozione di Saddam, proprio perché il caso iracheno era uguale a quello di Timor Est. La stessa cosa è stata sostenuta da Adam Michnik, uno dei leader della resistenza polacca. Invece molti credono che gli Stati Uniti siano il pericolo numero uno del mondo, guerrafondai, imperialisti e peggiori di chiunque altro. Questo odio antiamericano c’è sempre, non importa chi sia il presidente. In Europa non sopportano che, sull’Iraq, l’America abbia deciso da sola, ma non si rendono conto che avrebbe deciso da sola anche se la scelta fosse stata a favore dell’appeasement di Saddam”.
Il radicalismo islamista e il fascismo nazionalista, nella definizione di Hitchens, coincidono: “Condividono il culto del leader e il culto della morte che in qualche caso è positivo perché autodistruttivo”. Secondo Hitch, “sono entrambe ideologie irrazionali, estremamente violente, caratterizzate da un odio fanatico verso il popolo ebraico e volte a ricreare un glorioso passato perduto: il califfato”. Insieme con Paul Berman, Hitchens è l’unico intellettuale di sinistra ad aver notato come la settimana scorsa, con un solo gesto e con una sola frase, Saddam Hussein abbia confermato questa identità ideologica quando al suo processo, col Corano in mano, si è paragonato orgogliosamente a Mussolini e alla resistenza dei repubblichini di Salò nei confronti dell’occupazione militare alleata che liberò l’Italia dal nazifascismo.
La battaglia di Hitchens è interna alla sinistra, anche se ormai se ne è allontanato al punto da essere accusato di far parte della cabala neoconservatrice: “Non ho nessun legame di partito, ma continuo a pensare come un marxista. Se mi chiedono se sono diventato un neoconservatore, faccio prima a rispondere di sì. In realtà i neocon non sono conservatori sotto alcun punto di vista. La definizione nacque come insulto. Li odiavano, o se preferisci ci odiano, perché siamo radicali, perché vediamo una possibilità di pace, di progresso e di giustizia, nel cambiamento di uno status quo ingiusto e instabile. Questo non è conservatorismo. I neoconservatori fecero parte della coalizione che salvò la Bosnia e il Kosovo dal nazionalsocialismo di Slobodan Milosevic, un’ideologia anche in quel caso sostenuta da buona parte della sinistra che oggi non avrebbe cacciato Saddam. I neocon dissero che non si poteva consentire una pulizia etnica nel pieno centro dell’Europa, una posizione pragmatica oltre che di principio. E in quel caso non c’entravano nulla né Israele né il petrolio, come amano dire i loro avversari”.
L’origine dell’impegno anti Saddam di Hitchens si trova nei suoi decennali rapporti con la sinistra irachena e curda: “Kanan Makiya è il Dubcek della regione, l’uomo che ha descritto con precisione la natura dello Stato baathista, il mix tra socialismo e fascismo saddamita. Ma anche il primo presidente eletto dell’Iraq, Jalal Talabani, è un uomo di sinistra. Il suo partito fa parte dell’Internazionale socialista. Anche il Partito comunista iracheno è dentro il processo democratico avviato con il cambiamento di regime. I socialisti dovrebbero esprimere solidarietà ai loro compagni, specie a chi in questi anni ha combattuto davvero una rivoluzione. Questi sono i nuovi partigiani, invece la sinistra preferisce usare la definizione per gli uomini di Zarqawi” (Hitchens non sapeva delle parole di Piero Fassino su questo punto, ne ha voluto sapere di più e se ne è rallegrato).
Ma ancora prima dell’Iraq, è stata la fatwa dell’Ayatollah Khomeini contro Rushdie del 1989 ad aprire gli occhi a Hitchens: “Credevo che la sinistra avesse intuito la natura fascista del fondamentalismo islamico col caso Rushdie. Credevo avesse capito già allora che la rivoluzione islamista non era ribellione degli oppressi, ma un movimento degli oppressori. Che non era battaglia antimperialista, ma volontà di creare un impero anzi di ristabilire un impero perduto. Che non era una protesta contro la povertà e la disoccupazione, ma la causa della povertà e della mancanza di lavoro. Eppure la sinistra sottovaluta questo nemico, minimizza. Crede che il più importante nemico del progresso umano sia la globalizzazione, cioè gli Stati Uniti d’America. Conosco molte persone di sinistra che mi dicono: ‘Ok, bin Laden non è esattamente come Antonio Gramsci, ma meglio un movimento di protesta che nessuna protesta’. Fosse dipeso da loro non avrebbero destituito nemmeno il regime dei Talebani. E’ un mistero. E’ un modo corrotto di pensare che si spiega soltanto con l’antimericanismo. Tra l’altro costoro non si accorgono che ogni fascista d’Europa è contrario alla ‘guerra americana’ esattamente come loro. E contrari sono anche i più reazionari tra i conservatori, da Brent Scowcroft, a Bush senior, a Kissinger, a Pat Buchanan fino al neonazista David Duke”.
Hitchens, inoltre, sostiene che parecchi protagonisti del movimento contro la guerra in Iraq non siano affatto pacifisti, ma guerrafondai schierati dall’altra parte: “Mi dà molto fastidio quando leggo che chi si oppone alla politica bushiana di regime change è contrario alla guerra. Sarebbe vero se fossero pacifisti, ma non lo sono. In realtà sono favorevoli, fortemente favorevoli alla guerra, ma parteggiano per gli avversari. Ramsey Clarke, per esempio. Ieri era l’avvocato di Milosevic, oggi di Saddam. In passato, come dice lui stesso, è stato ex ministro della Giustizia di Lyndon B. Johnson. Io mi vergognerei di essere stato ministro di Johnson, lo terrei segreto, farei una plastica facciale e lascerei il paese, invece lui ne è orgoglioso. Saddam ovviamente ha diritto a un buon avvocato, ma mentre l’ex dittatore ha detto di non aver ordinato il massacro degli sciiti di cui è accusato, la prima dichiarazione di Clarke è stata di giustificazione di quel massacro, perché a quel tempo Saddam stava combattendo una guerra contro gli sciiti iraniani, dimenticandosi che fu proprio lui a invadere l’Iran, a iniziare quella guerra. Le parole di Clarke sono parole fasciste, eppure sui giornali è salutato come il leader dell’America contraria alla guerra. E’ una disgrazia e quando lo dico la gente mi chiede se sono serio, pazzo, cattivo o ubriaco. Clarke, invece è un buon uomo, nonostante giustifichi la tortura, il genocidio, l’aggressione, la dittatura”.
Un altro avversario di Hitchens è George Galloway, il parlamentare inglese che il giornalista definisce “membro del partito Baath, membro stipendiato dell’élite baathista, nonché membro della clientela dell’Oil for Food organizzata da Tareq Aziz, l’amico di papa Wojtyla”. Recentemente, aggiunge Hitchens, “Galloway è andato in Siria a difendere gli attentati, le esplosioni, le decapitazioni e le bombe nelle moschee, contro l’Onu e contro la Croce Rossa. E’ andato a Damasco a sostenere quello spazzolino umano di Bashar al Assad, il cretino piccolo dittatore della Siria. Questo sarebbe pacifismo? socialismo? liberalismo? No, è fascismo. Eppure per la stampa, Galloway è un indipendente, un dissidente, un piccolo David che affronta l’America-Golia”.
Hitchens scrive per Vanity Fair, per Atlantic Monthly e per Slate, prestigiose riviste liberal, ma è noto anche per i suoi saggi. L’ultimo è una breve biografia di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della Repubblica americana. Secondo Hitchens, Jefferson è un precursore della dottrina Bush. “La rivoluzione americana è universale, non riguarda soltanto gli Stati Uniti e considera le garanzie, i diritti, il laicismo, la democrazia, la Costituzione scritta come valori da diffondere”. Queste cose Jefferson le ha scritte in una lettera per celebrare il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza, ma Hitchens ricorda che le mise anche in pratica: “Jefferson fu il primo presidente a mandare truppe americane dall’altra parte dell’Atlantico. I suoi marine piantarono per la prima volta la bandiera a stelle e strisce in territorio straniero e quel territorio straniero era la Libia. Le guerre barbariche contro l’Algeria, la Libia e la Tunisia nacquero per fermare gli Stati schiavisti musulmani che controllavano lo stretto di Gibilterra e che, invocando un diritto sancito nel Corano, gestivano il traffico di oltre un milione e mezzo di schiavi. Jefferson non accettò compromessi ed esportò sulla punta della baionetta il libero commercio nel Mediterraneo. Non cercava un regime change, ma certamente un cambiamento di comportamento, un cambiamento di politica”.
Jefferson è stato anche il teorico del muro di separazione tra lo Stato e la Chiesa. Secondo Hitchens, che sul tema di Dio e della religione sta scrivendo un libro, “la vera battaglia odierna è tra il laicismo e il fanatismo religioso. La sinistra non capisce che c’è un nemico da sconfiggere, ma in realtà è tutto l’occidente ad apparire stanco di questa società, a non credere che ci sia qualcosa che davvero meriti di essere difesa. Su questo la destra estrema e la sinistra radicale concordano: Jerry Falwell e Pat Robertson sostengono, così come una parte della sinistra, che l’America si sia meritata ciò che è successo l’11 settembre. Ora il più grande errore che l’America cristiana può commettere è quello di far credere che questa non sia una guerra contro il fondamentalismo, ma a favore. Bush può pensare di essersi salvato grazie alle preghiera, ma sa che la sua battaglia in Iraq e in medio oriente dipende dai laici della regione. Più laici emergeranno, meglio sarà per la sua politica. Ed è affascinante vedere la vittoria dell’America cristiana dipendere dalla vittoria del laicismo. Il dramma della sinistra e dei seguaci dell’illuminismo è che hanno lasciato questa battaglia laica ai cristiani, e ora se ne lamentano. Questa non è politica, è fatalismo, neutralismo”.
11 Dicembre 2005