Per una volta che il Parlamento italiano aveva approvato una riforma seria della giustizia e adottato un principio giuridico degno di un paese civile, il capo dello stato ha deciso di appellarsi a una parte della Costituzione, di non firmare la legge, di rinviarla alle Camere e di seppellirla definitivamente. Carlo Azeglio Ciampi ha chiesto al Parlamento di riscrivere la riforma che aveva abolito il processo d’Appello in caso di sentenza favorevole all’imputato. I motivi per cui si trattava di una buona riforma sono evidenti anche a chi non ha dimestichezza con codici e pandette. Chiunque abbia visto almeno una volta un thriller americano sa che cosa significhi l’espressione “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Vuol dire che nei paesi dove il diritto non è materia da Azzeccagarbugli e il processo è davvero accusatorio, non proto-inquisitorio come da noi, i cittadini possono essere condannati soltanto in assenza del minimo dubbio sulla loro colpevolezza. Ed è chiaro come non possa esistere un dubbio più grande di una sentenza di assoluzione scritta e motivata da uno o più giudici. Se un imputato viene assolto, il caso è chiuso (ovviamente salvo errori formali, incongruenze o palesi violazioni di legge).
Il club dei magistrati e i soliti giustizialisti di complemento rientrati dalle ferie del caso Consorte sostenevano che la riforma berlusconiana alterasse gli equilibri tra accusa e difesa, perché consentiva all’imputato di appellarsi nel caso fosse condannato, ma non concedeva un’analoga possibilità all’accusa in caso di assoluzione. Ciampi ha accolto queste critiche, rilevando che la legge crea “asimmetrie tra accusa e difesa” e “una condizione di disparità” tra le parti processuali. Eppure le “condizioni di parità” di cui parla la Costituzione sono esplicitamente quelle del contraddittorio, non altre. Al contrario, la Costituzione stabilisce la più netta disparità possibile tra accusa e difesa, naturalmente a favore di quest’ultima. Avete mai sentito parlare della presunzione di innocenza? E dell’onere della prova a carico dell’accusa? L’articolo 27 della nostra Costituzione, a meno che non sia stato nottetempo abrogato come l’esclusiva prerogativa presidenziale di concedere la grazia, dice che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Quindi un’assoluzione conferma ciò che la Costituzione presume, ovvero l’innocenza dell’imputato: insomma è già un appello. “In dubio pro reo”, recita l’antico brocardo romano. Sempre. Anche quando è pro Cav.
21 Gennaio 2006