Milano. George W. Bush ieri mattina ha tenuto un inconsueto mini summit alla Casa Bianca con sette ex Segretari di Stato, compresi Colin Powell e Madeleine Albright, e con altrettanti Segretari della Difesa che hanno servito il paese in precedenti Amministrazioni. Con Bush c’erano anche Dick Cheney, Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld e i generali George Casey e Peter Pace ad ascoltare i consigli e i suggerimenti su come chiudere la partita in Iraq da parte di chi con Clinton, con Bush sr e con Reagan ha guidato la politica estera e di difesa americana. C’era anche il quasi novantenne Robert McNamara, il Segretario alla Difesa di John Fitzgerald Kennedy che ha gestito fino al 1968 la guerra del Vietnam.
La riunione alla Casa Bianca era stata convocata per discutere la strategia bushiana in Iraq, ma l’infarto che ha colpito Ariel Sharon ha fatto necessariamente cambiare la prospettiva della discussione, allargandola alla situazione in Israele e al medio oriente in generale. I giornali hanno paragonato l’uscita di scena di Sharon alla morte di Yasser Arafat, ma il rais era stato messo fuori gioco da una precisa decisione politica americana e israeliana. Bush e Sharon avevano deciso di trattare soltanto con una leadership palestinese democratica. La morte di Arafat, piuttosto, ha facilitato il processo.
(segue dalla prima pagina) Gli effetti dell’uscita di scena di Sharon sono ancora imprevedibili. La Casa Bianca non dice una parola, se non quelle scontate di solidarietà alla famiglia, al popolo e al governo israeliano. La preoccupazione però è evidente, anche perché l’intera strategia americana nella zona si riduce alla leadership di Sharon e al successo del suo piano di ritiro da Gaza e poi dalla Cisgiordania.
Gli analisti vicini alla Casa Bianca e gli osservatori del medio oriente cominciano a chiedersi che cosa potrebbe succedere senza la provata leadership di Sharon, a pochi giorni dalle elezioni a Gaza dove il movimento islamista di Hamas è accreditato della vittoria e a due mesi dal voto israeliano. Uno dei più grandi difensori della strategia mediorientale di Bush, il neoconservatore Norman Podhoretz dice al Foglio che “è ancora troppo presto per avanzare ipotesi. Saranno necessari alcuni mesi prima che si calmino le acque, poi credo che Benjamin Netanyahu diventerà il successore di Sharon. Ma conoscendo Bibi non mi avventurerei in previsioni sul tipo di politica che condurrà”. Secondo Podhoretz, “gli Stati Uniti non faranno altro che wait and see, aspettare e vedere come si evolve la situazione israeliana”. Sul futuro del processo di pace, Podhoretz crede che “se Bush manterrà la parola, come credo che farà, non sosterrà uno Stato palestinese fino a quando la leadership palestinesse rifiuterà di rinunciare al terrorismo e di smantellare le infrastrutture dei terroristi”, mentre “nell’immediato futuro” immagina che “gli israeliani saranno ancora più aggressivi di Sharon nel fronteggiare i razzi Kassam e i kamikaze”.
Gary Schmitt, direttore del Programma di Studi Strategici Avanzati dell’American Enterprise Institute, ricorda che “l’elezione a primo ministro di Sharon è stato il prodotto di un cambiamento significativo nell’atteggiamento israeliano riguardo a Gaza, alla Cisgiordania e a tutta la questione della sicurezza all’indomani dell’intifada. Sharon ha rappresentato un nuovo tipo di pragmatismo su che cosa volesse dire ‘Grande Israele’ e, allo stesso tempo, una nuova determinazione nella lotta al terrorismo. Questo pragmatismo non è svanito e qualunque nuovo leader israeliano dovrà tenere conto della nuova realtà politica. Anche senza Sharon, quindi, non credo ci saranno grandi cambiamenti nella politica americana e israeliana”.
Anche Max Boot, analista del Council on Foreign Relations, non crede che l’uscita di scena di Sharon cambierà la politica americana in medio oriente: “Uno degli elementi di forza di una democrazia come Israele è quella che le politiche non dipendono completamente da un solo uomo, anche se è un uomo molto influente come Sharon. La sua politica di ritiro dai territori e di costruzione della barriera difensiva è talmente popolare in Israele che con ogni probabilità sarà seguita da chiunque verrà eletto”.
Secondo un altro analista del Council, l’esperto di politica mediorientale Steven Cook, invece “nel breve termine ci sarà qualche cambiamento. Gli Stati Uniti rimangono impegnati a seguire la Road Map, ma l’infarto di Sharon complica le cose perché non c’è nessun altro leader che abbia la sua stessa credibilità al centro della politica israeliana. Il vicepremier Olmert è troppo debole ed è quindi un facile bersaglio per gli attacchi di Netanyahu. Questo non vuol dire che gli americani non faranno più gestire le cose direttamente agli israeliani, significa che senza la leadership di Sharon sarà più difficile ottenere una politica coerente dai politici israeliani”. Cook è preoccupato dallo scenario che potrebbe venir fuori nei prossimi giorni, con “Israele politicamente indebolito e Hamas politicamente rafforzato”. Secondo Cook questa situazione “potrebbe portare a una maggiore violenza nella regione e gli israelinani hanno già avvertito i palestinesi che non devono considerare la malattia di Sharon come un segno di indebolimento dell’esercito”.
Se Steven Cook fosse uno dei consiglieri della Casa Bianca, suggerirebbe al presidente “la necessità di esprimere subito alla destra israeliana il massimo sostegno e di avvertire Hamas e il Jihad islamico di non tentare di trarre vantaggio dalla situazione” e gli direbbe “di chiedere agli egiziani di mandare di nuovo a Gaza Omar Suleiman, il ministro dell’Intelligence di Mubarak, per accertarsi che la situazione resti tranquilla”.
6 Gennaio 2006