Milano. Le idee hanno conseguenze, una delle quali è che fanno vincere le elezioni. E’ semplicemente questo il piano strategico di Karl Rove per far ottenere ai repubblicani l’ennesimo successo elettorale, nel voto di metà mandato del prossimo novembre. Un programma agile, ma preciso, articolato su questo unico punto, non su fumose alchimie. Rove ha presentato ufficialmente il suo piano alla riunione invernale del partito, venerdì scorso a Washington, ma in realtà è un consiglio valido a ogni latitudine, come dimostrano i risultati elettorali degli ultimi anni in giro per il mondo occidentale. Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dall’Australia alla Polonia, dalla Germania al Portogallo, fino al Canada di ieri, le elezioni sono state vinte dagli schieramenti capaci di introdurre e di imporre nel dibattito e nell’agenda politica idee forti, posizioni chiare e guide credibili. O, per altro verso, sono state perse dalle coalizioni con scarsa visione strategica, impacciate sulle sfide poste dall’11 settembre e prive di leader efficaci.
Non è un caso che vincitori così diversi e così lontani abbiano condiviso posizioni simili su guerra al terrorismo, difesa dei valori e riduzione delle tasse. E se in materia fiscale il Labour di Tony Blair non è stato sulla stessa linea degli altri vincitori, i socialisti di Zapatero hanno prevalso sui popolari spagnoli con un immaginifico programma sui diritti civili e sui temi sociali e fiscali (oltre che con il decisivo aiuto della strage di al Qaida due giorni prima del voto).
In questa sua rara apparizione pubblica, l’architetto dei successi elettorali di George W. Bush ha spiegato al partito su quali temi puntare da qui alle elezioni di novembre per guadagnare altri seggi al Senato e alla Camera. Il programma di Rove consiste nel mantenere salda la guida del dibattito politico sulla sicurezza nazionale, sul taglio delle tasse e sull’interventismo dei giudici nella vita sociale del paese, lasciando all’opposizione di centrosinistra la scelta di opporsi o di cambiare argomento.
I democratici sembra stiano cascando ancora una volta nella trappola di Rove. Alle presidenziali del 2004 hanno cercato di non affrontare il tema della guerra in Iraq. Quando se ne sono occupati hanno lanciato messaggi contraddittori e non sono riusciti a fornire un’alternativa alle politiche bushiane. Oppure hanno criticato apertamente e alla radice le scelte del presidente, proprio mentre le truppe combattevano contro i nostalgici di Saddam e gli amici di Osama. Alle precedenti elezioni di midterm del 2002 avevano cercato di depotenziare il super Bush di allora evitando di dare un significato nazionale a quel voto. In entrambi i casi è finita male. A questo giro, i democratici hanno deciso di puntare sull’odore di corruzione che sfiora il Partito repubblicano e sui super poteri esecutivi di Bush, accusato di aver violato la Costituzione con le intercettazioni segrete delle telefonate tra terroristi e i loro contatti in America. Spostare l’attenzione sugli intrecci tra politica e affari e poi criticare il presidente perché usa gli strumenti dell’intelligence per proteggere i suoi concittadini non pare una grande scelta, almeno a giudicare dai sondaggi. L’eccezione a questa linea è il comportamento di Hillary Clinton, anche per questo considerata l’unica leader dei democratici in grado di poter sfidare un repubblicano. La senatrice di New York semmai critica Bush di essere troppo morbido sull’Iran, mentre per il resto sostiene senza sbavature la guerra in Iraq e si mostra molto attenta a conquistare gli elettori antiabortisti e religiosi.
Quando i Dems erano il partito dei valori
Dalla stagione del Sessantotto e del Vietnam, i Democratici si sono trasformati da partito delle idee, della difesa nazionale e dei valori tradizionali in movimento radicale, pacifista e arroccato nelle metropoli liberal. In questi quarant’anni i repubblicani hanno vinto sette elezioni presidenziali su dieci e hanno la maggioranza alla Camera, al Senato e tra i governatori. I presidenti del Grand Old Party, ha ricordato Rove, hanno hanno vinto la Guerra Fredda e “stanno vincendo la guerra contro il fascismo islamico”. Hanno liberato milioni di persone e tagliato le tasse garantendo la crescita dell’economia. Infine hanno protetto l’istituto del matrimonio e rafforzato la famiglia.
Secondo Rove, la grande differenza tra i due partiti è questa: i repubblicani hanno una visione del mondo post 11 settembre, mentre molti democratici ne hanno una pre 11 settembre. “Questo non significa che gli avversari sono traditori della patria, assolutamente no. Vuol dire che hanno torto, profondamente e coerentemente torto”. I nostri oppositori, ha aggiunto Rove, sono concittadini, non nemici: “Le persone possono avere oneste differenze politiche. E i nostri dibattiti devono sforzarsi di essere civili e intellettualmente integri. Ma allo stesso tempo, democratici e repubblicani hanno differenze profonde sul modo di intendere il paese, su dove sta andando, su che cosa ha bisogno per diventare più forte, migliore e più sicuro. Queste differenze devono essere discusse apertamente, pubblicamente e in modo appassionato”.