Camillo di Christian RoccaIraq, tre anni dopo

Milano. In occasione del terzo anniversario dell’invasione irachena per destituire il dittatore nazionalsocialista Saddam Hussein, in America e in Inghilterra si moltiplicano i bilanci della guerra e si tirano le somme di una decisione che continua a dividere l’opinione pubblica e la politica dei due paesi. Al solito c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi immancabilmente pensa sia mezzo vuoto. Ormai non si tiene più il conto dei nuovi scandali legati alla presenza militare angloamericana in Iraq né delle recentissime rivelazioni che screditano le ragioni dell’intervento liberatore. Le ultime due novità parlano di una camera nera all’aeroporto di Baghdad dove sarebbero stati commessi abusi da parte delle truppe americane, ma anche di dubbi su una strage di innocenti a Haditha. Il presidente americano, George W. Bush, ha rivendicato la sua decisione di invadere l’Iraq presentando la Strategia di Sicurezza Nazionale, parlando lunedì a una conferenza stampa e annunciando anche un discorso sulla democrazia il 29 marzo alla sede di Freedom House. Il premier britannico, Tony Blair, lunedì ha rilanciato le ragioni di sinistra dell’intervento con un discorso al Foreign Policy Center di Londra, il primo di tre “major speech”, l’ultimo dei quali sarà pronunciato in America.
Contemporaneamente cominciano a essere declassificati i primi documenti requisiti negli uffici di Saddam dopo la caduta del regime. Queste informazioni ricevono poco spazio sui giornali, malgrado provengano da fonti non bushiane. Il Foglio ha già riportato le rivelazioni pubblicate dalla rivista Foreign Affairs, organo ufficiale dell’establishment lontano dalla Casa Bianca, che svelano i piani terroristici programmati dai servizi di Saddam contro obiettivi occidentali in Europa. La rivista ha anche raccontato che Saddam e i suoi gerarchi erano convinti che i francesi avrebbero impedito l’intervento armato angloamericano, per preservare la loro fitta rete di interessi economici e commerciali in Iraq. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati altri documenti. Il New York Times ha raccontato che i capi militari del regime hanno saputo soltanto nel dicembre 2002, tre mesi prima della guerra, che Saddam aveva mentito sul possesso di armi di distruzione di massa. Un’informazione che, d’un colpo, cancella tutte le teorie complottistiche sulla falsificazione bushiana e blairiana delle prove sulle armi, come ha notato l’ex sindaco democratico di New York Ed Koch.
La rivista Newsweek ha raccontato che, poco prima dell’inizio della guerra, la Cia aveva assoldato il ministro degli Esteri di Saddam, Naji Sabri, il quale ha svelato che Saddam non aveva attivato programmi biologici e che, malgrado volesse dotarsi della bomba atomica, era ancora lontano dall’ottenerla. Il ministro, però, ha anche riferito che l’Iraq disponeva di ingenti scorte di armi chimiche e che aveva ricominciato a produrle. La Abc ha ottenuto quattro documenti, uno dei quali, datato 15 settembre 2001, dà conto di incontri tra i servizi di Saddam, i talebani e Osama. Un altro dimostra gli interessi iracheni nei meccanismi di finanziamento elettorale ai partiti francesi. Un terzo paper contiene l’ordine di distruggere documenti e di nasconderne altri agli ispettori Onu. L’ultimo riguarda la presenza di al Qaida in Iraq nell’agosto 2002. Il Weekly Standard, invece, ha scoperto che almeno fino al 2001 Saddam ha finanziato Abu Sayyaf, il gruppo filippino legato ad al Qaida e fondato dal cognato di Bin Laden. Infine Vanity Fair ha intervistato il direttore del Washington Post dei tempi del Watergate, Ben Bradlee, il quale ha detto di essere a conoscenza del nome della fonte governativa che ha svelato a Bob Woodward il nome dell’agente Valerie Plame, al centro dell’ormai dimenticato Ciagate. Bradlee ha detto che è ragionevole concludere che la fonte sia Richard Armitage, un powelliano in perenne guerra con i neocon e i cattivi di Cheney. Un’altra teoria cospirativa finita maluccio.

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