Milano. John Micklethwait, quarantatre anni, è il nuovo direttore dell’Economist (come anticipato dal Foglio il 22 febbraio scorso). Succede a Bill Emmott, direttore del settimanale londinese negli ultimi tredici anni, il giornalista inglese diventato beniamino in Italia per aver imbastito una travagliesca campagna contro Silvio Berlusconi, a partire da una famosa copertina del 2001 intitolata “Why Mr. Berlusconi is unfit to lead Italy”, “perché il signor Berlusconi non è adatto a guidare l’Italia”. Grazie a quella campagna, Emmiott è diventato il beniamino del solitamente provinciale establishment culturale e politico italiano, probabilmente è stato invitato all’Ambra Jovinelli, certamente ha ricevuto premi e onori in origine destinati ai giornalisti italiani.
John Micklethwait è l’autore, con Adrian Wooldridge, del fenonemale saggio sull’America che nei mesi scorsi su queste colonne è stato citato quasi quotidianamente, tanto ci è servito a comprendere gli snodi politici di Washington e le dinamiche culturali e sociali americane. “The Right Nation, tradotto da Mondadori col titolo “La destra giusta”, racconta l’America di oggi e l’effervescenza culturale del movimento conservatore come nessun altro è riuscito a fare. Sull’Economist di questi anni se ne è letta una versione distillata settimana dopo settimana. Micklethwait, infatti, ha diretto l’edizione americana, che sostanzialmente è uguale a quella europea salvo un’impaginazione che antepone le pagine degli Stati Uniti e americane a quelle europee e talvolta ha una copertina diversa. Leggete l’articolo tradotto e pubblicato qui sopra, scritto da Wooldridge con lo pseudonimo di Lexington sul numero dell’Economist in edicola oggi, per capire per quale motivo le pagine americane dell’Economist siano le migliori del mondo. Al Foglio, Wooldridge dice che la nomina del suo grande amico John Micklethwait “è un grande segnale di apertura all’America da parte nostra”. I motivi sono due, secondo Wooldridge, “intanto con la direzione americana di Micklethwait le vendite negli Stati Uniti sono raddoppiate e ora rappresentano più del 50 per cento del totale. L’America è più importante per il resto del mondo, anche perché è essa stessa più interessata alle cose che accadono fuori dai suoi confini”. Wooldridge non parla dei progetti di Micklethwait per il nuovo Economist, ma fa intendere che la “formula americana” del settimanale sarà esportata a Londra. Questo comporterà una maggiore attenzione ai movimenti conservatori, nessun disprezzo ideologico o, peggio, antropologico nei confronti della destra continentale. “Micklethwait è un conservatore liberale – dice di lui l’amico Wooldridge – quindi un liberale nel senso classico del termine, a favore del libero mercato, ma anche del matrimonio gay e della legalizzazione delle droghe, temi su cui John ha scritto spesso editoriali e storie di copertina”. Malgrado l’attenzione al mondo conservatore americano, il sostegno alla politica estera di Bush e al suo gigantesco taglio delle tasse, Micklethwait ha schierato l’Economist a favore di John Kerry alle ultime elezioni. “Più che altro per la profonda incompetenza mostrata dall’Amministrazione Bush – dice Wooldridge – ma ricorderete che aveva pure messo in guardia sull’incoerenza delle strategie politiche di Kerry”.
Micklethwait e Wooldridge lavorano al nuovo libro, il seguito di The Right Nation. “God’s Country” uscirà nel prossimo marzo ed è un’analisi della religiosità americana così distante dal secolarismo europeo ma che, secondo i due autori, presto investirà l’Europa. Per scrivere il libro, Micklethwait e Wooldridge hanno trascorso le loro domeniche nei luoghi di culto del paese.
L’Economist è uno dei migliori giornali del mondo, famoso per le sue analisi inappuntabili specie sui temi di politica estera e per le sue opinioni schiette, intelligenti, mai nascoste (esattamente il contrario della falsa idea che si ha in Italia del giornalismo anglosassone in doppio petto e distaccato dalla realtà). Gli articoli non sono firmati, come la prima e la terza pagina di un piccolo quotidiano italiano. Fondato nel 1843, diretto anche dal grande pensatore e costituzionalista Walter Bagehot, l’Economist prende sempre posizione, spesso incurante dell’assoluto minoritarismo delle sue scelte. Ultimamente si è schierato a favore della guerra in Iraq, dell’esportazione della democrazia sulla punta della baionetta, ma anche per il licenziamento di Donald Rumsfeld, contro l’accordo nucleare tra Stati Uniti e India. Alle scorse elezioni ha appoggiato Tony Blair considerandolo l’unico, vero, candidato conservatore: ora, invece, chiede le sue dimissioni immediate. Le copertine dell’Economist diventano spesso parole d’ordine per i leader del mondo libero. La famosa frase “addicted to oil”, “dipendenti dal petrolio”, pronunciata recentemente da George Bush nasce da una copertina dell’Economist, che negli anni ha sempre sponsorizzato la causa della globalizzazione (famosa la cover che si prendeva beffa del libro di Naomi Klein col titolo: “Pro Logo”), ma è anche attentissimo alla salvaguardia dell’ambiente. Nel 2001, ben prima del recente dibattito italiano, ha spiegato che è perfettamente laico e liberale mettere dei paletti alla manipolazione genetica chiesta a gran voce da una scienza e da una società alla ricerca della perfezione della specie. Spesso l’Economist è feroce. Contro l’asse franco-tedesco, contro l’elefantiaca burocrazia europea, contro chiunque quella settimana non gli vada a genio. Il super elogiato saggio di Thomas Friedman sulla globalizzazione, “La Terra è piatta” in uscita per Mondadori, ha ricevuto una stroncatura tale da poter distruggere una carriera. Quando Romano Prodi era presidente della Commissione Ue, l’Economist raccontava che non s’era mai visto un alto dirigente europeo così impreparato sui dossier. E, nella colonna Charlemagne, faceva notare come alle riunioni di Bruxelles, Prodi fosse solito schiacciare un pisolino. La spudoratezza e il narcisismo dell’Economist gli hanno fatto guadagnare parecchi nemici, ma è possibile che i modi meno ideologici, più pragmatici e, soprattutto, la capacità di non prendersi sul serio del nuovo direttore possano cambiare qualcosa. Micklethwait proviene da una ricca famiglia che conta uno zio miliardario (gran finanziatore dei Tory) ed è dotato di uno straordinario senso dell’umorismo. Un perfetto inglese.
A Wooldridge, il Foglio ha chiesto di Silvio Berlusconi e della campagna dell’attuale Economist contro il Cavaliere, al quale in questi anni ha dedicato due copertine: “Non sono la persona adatta a dare un giudizio sulla situazione italiana – ha detto Wooldridge dal suo nuovo ufficio di Washington – ma non c’è dubbio che il problema del conflitto di interessi sia enorme”. La sensazione, dalle parole di Wooldridge e da umori raccolti tra gli amici di Micklethwait, però è che il nuovo corso dell’Economist sarà diverso. Non sottovaluterà l’anomalia berlusconiana, ma senza l’acrimonia e i toni da crociata di questi anni. Soprattutto, non nasconderà l’inadeguatezza della coalizione prodiana, peraltro anticipata nel recente dossier sull’Italia che già segnalava la pericolosità delle ricette economiche del centrosinistra. Micklethwait comincerà la sua avventura tra due settimane.
25 Marzo 2006