Chi è Massimo D’Alema? Ce ne sono almeno due, l’uno diverso dall’altro, il migliore e il peggiore riuniti nella stessa persona. Ditemi qual è quello vero, poi mi pronuncerò sulla “proposta anomala” lanciata da Lanfranco Pace: D’Alema al Quirinale. Di certo, comunque vada, ai miei nipotini non farei mai vedere lo Scary movie del presidente Max che legge il messaggio di fine anno agli italiani. Lo seguo da tempo, D’Alema. E sempre con un pregiudizio positivo. Ogni volta, però, resto deluso. Se il vero D’Alema fosse quello che aprì un Congresso del suo partito denunciando il conservatorismo del sindacato, lo vorrei su quell’ermo colle. Fosse quello che un paio di giorni dopo subì il diktat di Sergio Cofferati e poi fece retromarcia, preferirei restasse dov’è, a cazzare la randa. Gli farei da claque, se il vero D’Alema fosse quello che da presidente del Consiglio, a Montecitorio, disse che “noi ci sentiamo, con l’Europa, a fianco degli Stati Uniti: non solo perché alleati in un’alleanza che si è cementata nel corso di una lunga storia durante la quale per ben due volte, nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, gli americani hanno versato il loro sangue per la pace e la libertà del nostro continente, ma anche perché sentiamo minacciati ed offesi i valori comuni”. Ma chi mi assicura che poi non torni il D’Alema che accusa gli americani di “aver pensato di combattere il terrorismo con la politica della guerra, delle torture, delle uccisioni dei civili”, quello delle battute sul sionismo di Fassino, quello che scendeva in piazza a difendere l’invasione irachena del Kuwait? D’Alema è il politico che nel 1994 avrebbe voluto vedere il Cav. ridotto a chiedere l’elemosina oppure quello che cinque anni dopo è andato nello studio di Stranamore a dire che Mediaset è una risorsa del paese?
Io ho sempre pensato che il vero D’Alema fosse quello buono, malgrado un’inspiegabile mancanza di coraggio. Chi lo conosce mi dice che sbaglio. Mi dice che D’Alema non è il potenziale Blair italiano, che le sue convinzioni profonde non sono quelle lì, che non si è mai separato dalla sua antica cultura politica notoriamente antioccidentale e antiamericana. Fosse il D’Alema che ho in mente, sarebbe un ottimo capo dello stato. Se è quell’altro, resta il miglior rappresentante del blocco conservatore che ha vinto le elezioni. Al Quirinale porterebbe esperienza politica, eserciterebbe la sua leadership di grande vecchio della Repubblica e non farebbe mancare le sue famose battute fulminanti. Non sarà come Blair, ma il titolo di nuovo Andreotti è già suo.
29 Aprile 2006