Milano. Cominciano a circolare le prime indiscrezioni sulla nuova strategia globale sull’Iraq che nelle intenzioni della Casa Bianca dovrebbe segnare una svolta militare, ma anche politica, economica e diplomatica già nelle prossime settimane. George W. Bush presenterà il nuovo piano agli americani con un discorso di venticinque minuti in diretta televisiva mercoledì alle nove di sera, le tre del mattino in Italia. La situazione è molto delicata, non soltanto dal punto di vista strategico-militare. Non è, infatti, una semplice questione di aumento del numero dei soldati americani in Iraq. Il punto è se Bush annuncerà – come è probabile visto il ribaltone di militari e di civili al Pentagono e al dipartimento di stato – un cambiamento radicale di strategia e se riuscirà poi, una volta presentato il nuovo piano, a ottenere il necessario consenso dell’opinione pubblica e del sistema politico americano.
Le anticipazioni parlano di un invio in Iraq di ulteriori ventimila uomini, principalmente a Baghdad, con l’obiettivo di rendere sicura la città. Un tentativo simile, ma senza l’aumento delle truppe e soltanto nelle zone sunnite, era stato già provato l’anno scorso, ma l’operazione congiunta americana e irachena era fallita, perché una volta liberate le zone dai guerriglieri l’esercito americano rientrava nelle basi. Dopo pochi giorni i gruppi paramilitari riprendevano il controllo, perché le forze di sicurezza irachene non erano in grado di mantenere la sicurezza del quartiere. La nuova strategia di Bush punta a liberare le zone occupate e a restare in loco, garantendo la sicurezza ai cittadini e avviando seduta stante la ricostruzione, come è accaduto in altre province. Alla Casa Bianca parlano di un vero e proprio Piano Marshall per l’Iraq, per il quale Bush chiederà al Congresso il raddoppio dei fondi e un miliardo di dollari per un immediato piano di coinvolgimento della popolazione nella ricostruzione dei quartieri appena liberati. Ai comandanti americani sarà data la facoltà di spesa e di assunzione, mentre Bush chiederà al governo iracheno di impegnarsi in modo preciso a rispettare una serie di impegni politici (partecipazione dei sunniti, allentamento della de-baathificazione ed elezioni provinciali), economici (la legge sulla redistribuzione dei proventi del petrolio), e di sicurezza (fermare le milizie di Moqtada Sadr).
Bush dovrà affrontare tre diversi ostacoli. Il primo, ovviamente, è il nemico da sconfiggere militarmente in Iraq, cioè i terroristi di al Qaida, i nostalgici sunniti del dittatore, le violente milizie sciite di Moqtada al Sadr e gli agenti di influenza iraniani. A Baghdad, però, c’è anche il problema di Nour al Maliki, il cui governo – secondo molti osservatori – è animato da un eccessivo pregiudizio antisunnita, oltre che simpatetico con le squadracce di Moqtada. Infine c’è il fronte interno con i democratici alla guida del Congresso e con una buona fetta di senatori repubblicani scettici sulle nuove proposte.
La linea di Joe Biden
Il consenso alla nuova strategia è necessario, hanno fatto notare quei commentatori che in questi anni hanno criticato l’approccio “leggero” ideato da Donald Rumsfeld e dai suoi generali. Le esperienze passate dimostrano che un’escalation politica e militare può avere successo soltanto se accompagnata da una leadership capace di cambiare strategia e di saperla difendere di fronte alle avversità. I democratici sono divisi. Hillary Clinton ha detto che non si pronuncia fino a quando non avrà ascoltato Bush. Barack Obama sostiene che un piccolo aumento delle truppe non cambierà nulla. Il deputato Dennis Kucinich ha presentato a New York il suo piano per porre fine alla guerra, così come farà Ted Kennedy domani a Washington. La leader alla Camera, Nancy Pelosi, ha detto che Bush dovrà motivare per bene la sua richiesta e ha proposto alla Casa Bianca di presentare le domande di finanziamento della nuova strategia tenendole separate dai costi dell’attuale presenza in Iraq. In questo modo i democratici potrebbero votare no all’aumento delle truppe senza essere costretti a togliere i finanziamenti ai soldati già impegnati in Iraq e passare per antipatriottici.
E’ stato uno dei leader del suo stesso partito, il senatore Joe Biden, a dire che la proposta non ha alcun senso e che, una volta autorizzato il presidente a fare la guerra, il Congresso non ha alcun potere costituzionale di gestire l’intervento dicendo questo sì e questo no, né di imporre a Bush di fermarsi. L’arma a loro disposizione resta quella delle audizioni al Congresso e, infatti, da mercoledì sfileranno Condi Rice, il boss del Pentagono Bob Gates e il capo di stato maggiore Peter Pace.
(segue dalla prima pagina) Sono soltanto due i pezzi da novanta schierati con l’idea di intraprendere una strategia più offensiva: il repubblicano John McCain e il democratico-indipendente Joe Lieberman, i quali però avvertono che un piccolo aumento di truppe sarebbe l’errore più grande che il presidente possa fare. Entrambi, venerdì, hanno parlato all’American Enterprise Institute dove è stato presentato il piano “Choosing Victory”, scritto dall’analista Frederick Kagan e dall’ex generale Jack Keane e che sembra essere alla base della nuova strategia irachena che Bush si appresta a presentare mercoledì.
Due analisti militari come Bing West e Eliot Cohen suggeriscono a Bush di minacciare il disimpegno, nel caso il governo iracheno non rispettasse i patti. I due esperti ricordano inoltre che l’ottanta per cento dei miliziani catturati dagli americani – e poi consegnati alle autorità irachene – viene rilasciato dopo un paio di giorni. Il risultato paradossale è che nelle carceri di Baghdad c’è un numero di detenuti otto volte inferiore rispetto a quello di New York. Il governo Maliki ha annunciato un suo piano per la sicurezza, coordinato con quello americano. E’ probabile che una delle richieste sarà quella di appaiare nuove truppe irachene ai ventimilia soldati americani. Il premier di Baghdad già altre volte si era impegnato a disarmare le milizie di Moqtada, ma non l’ha mai fatto. Stavolta sembra essersi deciso, anche perché c’è il rischio che il successivo piano di Washington, nel caso questo fallisca, possa essere il ritiro immediato. Nel frattempo, a Najaf, l’ayatollah Ali al Sistani ha chiesto al ribelle Moqtada di rientrare al governo e di sostenere l’impegno di Maliki.
Le nuove e più decise regole d’ingaggio americane in Iraq – preannunciate da Bush a un gruppo di senatori dei due partiti, venerdì alla Casa Bianca – sono il risultato della riscrittura del manuale antiguerriglia preparato dal generale David Petraeus, il prossimo capo delle operazioni militari in Iraq. Petraeus è considerato una delle menti più brillanti del Pentagono e tutti esaltano le sue capacità militari e anche il modo in cui sopravvisse a un proiettile di un M-16 che una recluta gli aveva sparato per errore sul petto (fu salvato da un’operazione di cinque ore condotta dall’ex leader repubblicano al Senato Bill Frist). Il vice di Petraeus a Baghdad sarà Raymond Odierno, il tenente-generale che catturò Saddam Hussein e il cui figlio ha perso un braccio a Baghdad. Odierno ha detto ai giornalisti che i primi effetti del nuovo piano di sicurezza si potranno valutare tra agosto e settembre, ma che per vincere saranno necessari “due o tre anni”.
9 Gennaio 2007