Milano. Mancano 22 mesi, quasi due anni, alle elezioni presidenziali del 4 novembre 2008 con cui gli americani sceglieranno il successore di George W. Bush alla Casa Bianca. Formalmente nessuno dei big dei due partiti – John McCain e Rudy Giuliani tra i repubblicani, Hillary Clinton e Barack Obama tra i democratici – ha annunciato la propria candidatura, ma con l’inizio del 2007 sono già cominciati i famigerati “dirty tricks”, i “giochi sporchi” tra i candidati che da sempre accompagnano le campagne elettorali americane.
Le prime vittime sono state Rudy Giuliani e Barack Obama. Il botto di inizio anno l’ha subìto l’ex sindaco di New York Giuliani, a cui è stato sottratto un rapporto interno di 140 pagine con i dettagli dei suoi piani politici, strategici e finanziari per la campagna elettorale. Il testo che individua i nomi dei possibili finanziatori da sottrarre al rivale repubblicano John McCain e fa l’elenco delle difficoltà che potrebbe incontrare Giuliani da qui alle primarie (il ruolo dell’ex moglie, le amicizie con personaggi sotto inchiesta, le posizioni di sinistra sulle questioni sociali) è finito sulle colonne del Daily News di New York, e da lì su ogni giornale e televisione d’America, apparentemente grazie a “una fonte vicina a uno dei rivali di Giuliani alla Casa Bianca”.
Sul fronte democratico è stato Barack Obama a subire le prime critiche e la prima copertura di stampa negativa della sua giovane vita politica. I repubblicani insistono a chiamarlo col suo nome completo che è Barack Hussein Obama, quasi a voler lanciare un messaggio subliminale “Obama uguale Hussein, come Saddam”. A complicare le cose ci si è messa, due giorni fa, la tv via cavo iperliberal Cnn che ha trasmesso un servizio sulla caccia a Osama bin Laden, mostrando le immagini del capo di al Qaida e la scritta “Where is Obama?”, invece di Osama. La Cnn si è scusata pubblicamente col senatore dell’Illinois.
Improvvisamente Obama è costretto ad affrontare i primi ostacoli nella sua fin qui facile avventura politica. Il Washington Post di ieri, in particolare, non è stato tenero nei suoi confronti. In prima pagina c’era un articolo che ricordava un dettaglio dimenticato della sua adolescenza, contenuto nella sua autobiografia di undici anni fa “Dreams From My Father”. Nel libro, Obama racconta che ai tempi del liceo gli è capitato di fumare erba e di sniffare cocaina. Il Post si chiede se questo episodio potrà bloccargli la strada per la Casa Bianca, o perlomeno rendergliela più difficoltosa. Non si tratta di uno scoop clamoroso, visto che l’autobiografia di Obama oltre a essere stata scritta da lui ed essere vecchia di undici anni, è stata ristampata l’anno scorso e ha venduto oltre 800 mila copie, ma certamente segnala che è finita la luna di miele tra il senatore e la stampa liberal. Nei giorni scorsi, peraltro, è cominciata a circolare una storia di un piccolo favore immobiliare ricevuto da Obama un paio di anni fa da un vicino di casa nonché finanziatore della sua campagna elettorale. A molti ha fatto tornare alla mente la vicenda Whitewater che ha inseguito Bill e Hillary Clinton per anni, fino a conflagrare nel sexgate con Monica Lewinsky. Infine, sempre ieri e ancora sul Washington Post, è comparsa una column di Ruth Marcus che suggerisce a Obama il testo di un discorso da tenere nei prossimi giorni per annunciare il ritiro dalla corsa per la Casa Bianca perché, “almeno per adesso”, non sarebbe ancora pronto.
Queste improvvise critiche e riserve pubbliche su Obama certamente fanno piacere a Hillary Clinton, la front runner, la favorita tra i democratici in vista delle primarie di gennaio 2008. Il suo vantaggio nei confronti degli avversari è soprattutto finanziario e organizzativo. Hillary lavora da anni a questo momento e grazie anche a suo marito Bill e alle connection dei tempi della Casa Bianca ha fatto il pieno di finanziatori, consiglieri e boss del Partito democratico.
Nel momento in cui è virtualmente sceso in campo anche Obama, il grande vantaggio di Hillary si è andato assottigliando e qualche grande finanziatore come George Soros ha cambiato cavallo. Hillary, però, esattamente come l’editorialista del Washington Post, confida nella scarsa esperienza internazionale di Obama e sul fatto che gli elettori democratici alle primarie prima o poi se ne accorgeranno. Questo sembrerebbe il pensiero dell’ex first lady, almeno stando alle anticipazioni di un articolo che comparirà sul New York Times nei prossimi giorni ma svelate ieri dal sito Drudge Report.
Hillary al momento riconosce in Obama, e poi in John Edwards, gli avversari da battere, ma a una riunione in New Hampshire avrebbe detto di essere certa che la stella di Obama prima o poi diminuirà di intensità.
Tra i repubblicani, a parte Giuliani, è l’ex governatore mormone del Massachusetts Mitt Romney a sentire il fiato sul collo degli attacchi personali. Quasi ogni giorno compaiono articoli sulla sua religione, considerata una setta dalla gran parte dei cristiani evangelici che costituiscono una delle basi elettorali del Partito repubblicano. I giornali vogliono sapere da Romney se crede effettivamente nei precetti del mormonismo, religione di cui è stato ministro. Il settimanale New Republic chiede addirittura un major speech del candidato sull’intera questione, sul modello di quello che, nel 1960 in una chiesa protestante di Houston, fece John Kennedy per rassicurare gli elettori evangelici impauriti dal suo cattolicesimo.
Oltre a essere ipeconservatori sulle questioni etiche e sociali, infatti, i mormoni sono millenaristi in attesa del secondo avvento di Cristo proprio negli Stati Uniti. Credono inoltre nella centralità della profezia e considerano il capo della loro chiesa un profeta, anzi “la bocca di Dio in Terra”. Si chiede New Republic: una volta alla Casa Bianca, come risponderà Romney a un eventuale comando del capo della chiesa mormone, cioè del suo profeta? Tanto più che a differenza del cattolicesimo, del protestantesimo e del giudaismo, il mormonismo è considerato dai suoi seguaci – esattamente come l’islamismo – la fonte della verità assoluta, non un insieme di precetti morali.
I dubbi sulla religione di Romney continueranno a essere posti per tutto l’anno, alimentati da opinionisti e commentatori vicini ai repubblicani John McCain e Rudy Giuliani. Oggi McCain è quello meno esposto sul fronte degli attacchi personali, un po’ perché li ha subiti in quantità industriale alle primarie del 2000, quando addirittura si sparse la voce che aveva avuto una figlia fuori dal matrimonio e con una donna afroamericana. Questa volta McCain appare più protetto anche perché gli sta riuscendo l’impresa di consolidare il suo ruolo di candidato dell’apparato, invece che di voce libera, indipendente e un po’ matta del Partito repubblicano. Un’operazione di inquadramento nell’establishment che è ancora precaria, ma potrebbe diventare decisiva qualora scegliesse come vicepresidente l’ex governatore della Florida, nonché fratello dell’attuale presidente, Jeb Bush.
Eppure anche McCain deve stare attento, non tanto perché il democratico John Edwards ha cominciato a definire “dottrina McCain” l’idea di inviare più truppe in Iraq, ma perché al quartier generale di Giuliani circola il sospetto che siano stati i McCaniacs a “rubare” il documento segreto di 140 pagine. Il fronte McCain ovviamente nega, però prende in giro il rivale: “Ma Giuliani non si occupava di sicurezza?”.
4 Gennaio 2007