Milano. Il problema dei neoconservatori non è che siano ebrei, trotzkisti o militaristi, ma è la loro professione: sono giornalisti. Sul Financial Times di ieri (vedi colonna a fianco), Gideon Rachman ha sferrato un duro attacco al gruppo di intellettuali neoconservatori che in questi anni ha contribuito a elaborare la cosiddetta Dottrina Bush post 11 settembre. L’accusa di Rachman è la seguente: i migliori opinionisti sono quelli che riescono a essere chiari e leggibili, secondo l’adagio giornalistico che dice di “semplificare, poi esagerare”. E’ una formula vincente per scrivere gli editoriali, scrive l’editorialista del FT, ma non può essere il principio guida di una politica estera. Un paio d’anni fa una critica simile arrivò dallo scrittore Gore Vidal, secondo il quale i neoconservatori erano soltanto “un gruppo di recensori”.
“Ha torto – dice Bill Kristol, l’ideologo in capo dei neocon e uno dei personaggi presi di mira da Rachman – In realtà, la gran parte dei più importanti neoconservatori non è giornalista o non è primariamente giornalista: Paul Wolfowitz e Richard Perle, ovviamente, ma anche Bob Kagan, Gary Schmitt e io stesso, prendendone soltanto tre, siamo arrivati a Washington per lavorare negli apparati di stato e abbiamo lavorato in varie amministrazioni. Direi, piuttosto, che tutti noi siamo stati formati dall’esperienza di governo. In più – aggiunge Kristol, che ha lavorato come direttore generale del dipartimento dell’Istruzione ai tempi di Reagan e come capo dello staff del vicepresidente Dan Quayle – ci sono altri esempi, come quello di Reuel Marc Gerecht alla Cia e di Fred Kagan, ovvero del teorico dell’aumento delle truppe in Iraq, che ha insegnato all’accademia militare di West Point”.
Uno dei decani del movimento, Norman Podhoretz, dice al Foglio che l’editorialista del Financial Times, “ben più che i neoconservatori che intende attaccare, è un esempio migliore dei vizi giornalistici di cui parla: niente di tutto ciò che è accaduto in Iraq, o in medio oriente, dimostra che Charles Krauthammer e il resto di noi avevano, o hanno, torto nel credere che nessun altro ha ancora offerto una strategia alternativa, e lontanamente plausibile, per attaccare il mostro che sta dietro all’11 settembre”.
Secondo Podhoretz, “certamente un’alternativa non è la Commissione Baker, la cui idea di convincere gli iraniani e i siriani ad aiutarci è realistica quasi quanto la possibilità che io diventi Papa. Quanto ai democratici, l’unica loro strategia è quella di diffamare Bush, non importa a quale costo per il paese”.
(segue dalla prima pagina) David Frum, ex speech writer di Bush e columnist di varie testate, è uno dei neoconservatori presi di mira da Gideon Rachman, in quanto editorialista che, semplificando e poi esagerando, avrebbe contribuito a condurre l’America in guerra: “Non c’è semplificazione ed esagerazione maggiore di dire che gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq perché il presidente Bush si è fatto convincere dagli articoli di alcuni giornalisti, neoconservatori o no”. Anche Michael Ledeen, titolare della Freedom Chair all’American Enterprise Institute, liquida le accuse di Rachman: “E’ la cosa più stupida che abbia letto da parecchi mesi: la maggioranza dei giornalisti è anti neocon. La sua vera obiezione è la politica di Bush, ma essendo incapace di proporre un’alternativa ragionevole se la prende con chi la sostiene. E, tra l’altro, non considera che le decisioni sono di George Bush, Dick Cheney, Bob Gates, Condi Rice e Peter Pace, nessuno dei quali è un neoconservatore. Nemmeno il generale Petraeus, dopo tutto, è un neocon, ma l’aumento delle truppe è anche la sua politica”.
Secondo Joshua Muravchik, neocon di origine socialdemocratica, quello di Rachman “è un articolo stupido che non spiega perché le idee neocon sarebbero sbagliate”. Muravchik, analista all’American Enterprise, nota come Rachman “invece di discutere le idee neocon, cosa di cui forse è incapace, si occupa della nostra professione, peraltro raccontando il falso. A un certo punto dell’articolo, dopo che cita Krauthammer negare che ci sia un’alternativa strategica, il lettore si sarebbe aspettato un colpo da ko, cioè l’elencazione delle strategie alternative a quelle neoconservatrici. Invece niente”.
L’ex capo delle pagine degli editoriali del Wall Street Journal, Max Boot, oggi fellow al Council on Foreign Relations, concede a Rachman il fatto che i giornalisti eccedano nella semplificazione, “ma non sta in piedi l’idea che i giornalisti neocon semplifichino più degli altri né che abbiano sbagliato più di altri opinionisti”. Di recente, anzi, l’editorialista liberal del Los Angeles Times, Jonathan Chait, ha ricordato come tutti quei liberal che si congratulano con se stessi per essersi opposti alla guerra in Iraq dovrebbero ricordarsi di aver avuto torto in molte altre occasioni. “In ogni caso – ricorda Boot – non si può dire che l’Iraq sia il prodotto dei neoconservatori, siano essi al governo o nel giornalismo. Se mettiamo di fila i nomi dei principali sostenitori di questa guerra, compresi i direttori di New Republic, Washington Post e Wall Street Journal, scopriamo che la maggioranza è liberal. E i politici come Hillary Clinton, Harry Reid, Dianne Feinstein, Chuck Schumer, José María Aznar, Tony Blair, Gordon Brown, David Cameron, Michael Howard, John Howard e Silvio Berlusconi, sono diventati neoconservatori?”.
17 Gennaio 2007