Milano. Le polemiche sul nuovo piano iracheno di Bush continuano senza sosta, ma non sono soltanto di tipo partigiano. Arrivano, piuttosto, le prime critiche sul merito della strategia annunciata dieci giorni fa da Bush. La gran parte degli oppositori continua a rifiutare in blocco il piano Bush, senza offrire nessuna credibile alternativa. Ieri Hillary Clinton ha definito “perdente” la nuova strategia e si è fermata lì. Il senatore repubblicano Chuck Hagel sta lavorando, insieme con i democratici Joe Biden e Carl Levin, a una risoluzione non vincolante che esprima “il senso del Senato” contrario all’aumento delle truppe, mentre il senatore Christopher Dodd, candidato alle primarie democratiche del prossimo anno, ha presentato un progetto di legge che chiede un’ulteriore risoluzione del Congresso nel caso Bush volesse aumentare il numero di soldati già presenti in Iraq. Ma accanto a queste schermaglie politiche c’è anche chi entra nel merito del piano Bush. Il primo è stato David Brooks, la settimana scorsa sul New York Times, a dubitare della credibilità del premier iracheno Nouri al Maliki, fin qui parecchio disponibile con le milizie sciite del leader radicale Moqtada al Sadr. Ieri, sempre il New York Times ha dedicato il primo editoriale al “partner mancante in Iraq”, ovvero ad al Maliki: il piano di Bush si fonda sulla convinzione che il governo iracheno collaborerà, ma nessuna delle idee presentate dalla Casa Bianca potrà avere successo senza la piena collaborazione di Maliki. Da quando Bush ha annunciato il piano, specificando che è stato preparato in collaborazione con il governo iracheno, Maliki non è mai intervenuto direttamente, facendo intendere di non essere particolarmente entusiasta dell’idea di avere più soldati americani per le strade di Baghdad. Il New York Times ha notato, inoltre, che Maliki ha appena nominato il generale Aboud Qanbar, un rumoroso avversario del maggior coinvolgimento americano, a capo delle nuove operazioni di sicurezza che l’esercito iracheno dovrebbe condurre insieme con i soldati statunitensi. Il senatore repubblicano George Voinovich pensa la stessa cosa e crede che Bush abbia messo “un po’ troppo del nostro futuro nelle mani di quest’uomo”. Una preoccupazione condivisa da James Hoge, editorialista di Foreign Affairs, secondo il quale “questa è la debolezza potenziale più grande del programma presidenziale, perché Maliki ha dimostrato in molti modi e in diverse occasioni che non è affidabile come partner”. La Casa Bianca due giorni fa ha provato a smontare questa diffidenza americana su Maliki, diffondendo tutte le dichiarazioni ufficiali irachene favorevoli al piano.
La critica più articolata è quella dell’ex analista Cia, Reuel Marc Gerecht, da anni sostenitore dell’idea di puntare sulla maggioranza sciita del paese piuttosto che cercare una soluzione politica con la minoranza sunnita. Non averlo fatto, secondo Gerecht, ha rafforzato la parte radicale dell’Iraq sciita, scesa in campo a difendere con le armi la popolazione dagli attacchi terroristici sunniti.
Sull’altro fronte, le porte aperte ai sunniti non hanno ridotto di nulla la ferocia assassina centrata sul motto “potere o morte”, come dimostrano non solo le stragi ma anche le dichiarazioni pro attentati delle organizzazioni sunnite e di gran parte della stampa araba della regione. Gerecht ieri ha scritto un lungo articolo sul Wall Street Journal per proporre una serie di revisioni alla strategia bushiana. Intanto crede che il piano lasci ancora in piedi una buona parte del disastroso approccio militare di John Abizaid e George Casey, i due generali che hanno guidato le operazioni belliche sul teatro iracheno. La scommessa dei due generali – costruire in fretta un esercito iracheno capace di poter fronteggiare il terrorismo sunnita – è stata persa nel febbraio 2006 quando c’è stata la strage della moschea di Samarra. A quel punto, secondo Gerecht, la pazienza sciita si è trasformata in rabbia violenta.
Al Pentagono, inoltre, sembrano prendersela comoda con i tempi e con la nomina del nuovo generale David Petraeus, mentre il nuovo segretario, Bob Gates, da un lato parla di un impegno di pochi mesi e dall’altro fa intendere che non tutte le cinque nuove brigate potrebbero essere utilizzate. Gerecht cita l’ex generale Jack Keane, il teorico militare dell’aumento delle truppe deciso da Bush, e attacca duramente l’approccio soft che il Pentagono sta dando alla strategia di Bush.
Gerecht sostiene che non solo bisogna fare presto, bene e utilizzare tutti gli uomini, ma anche che gli americani dovranno essere loro a guidare le operazioni militari, piuttosto che fornire sostegno agli iracheni. L’unico modello vincente finora, sebbene su scala minore, è quello della sconfitta della guerriglia a Tal Afar. In quell’occasione – ricorda Gerecht – gli iracheni avevano un ruolo di sostegno, non di comando delle operazioni. Gerecht sostiene che le operazioni dovrebbero cominciare “spezzando la schiena” alla guerriglia sunnita e occupando “le principali città sciite”, mostrando loro che perderanno tutto se non rinunceranno alla violenza. Soltanto in un secondo momento ci si dovrà occupare delle milizie sciite – scrive Gerecht – Prima sarà necessario mostrare alla comunità sciita, oggi difesa esclusivamente dalle squadracce di Moqtada dagli attacchi del terrorismo sunnita, che l’obiettivo primario del nuovo piano non è l’enclave sciita di Baghdad.
17 Gennaio 2007