Camillo di Christian RoccaSoldi, soldati e sicurezza, la guerra sui poteri di guerra alla prova dell'Iraq

Milano. La notte scorsa, dallo studio nella biblioteca della Casa Bianca, George W. Bush ha presentato il suo nuovo piano strategico per l’Iraq che prevede l’invio di altri ventunmila e cinquecento soldati (17.500 a Baghdad, 4 mila nella provincia sunnita di Anbar), il sostegno all’esercito iracheno nella conduzione delle operazioni di sicurezza e l’avvio immediato della ricostruzione delle zone liberate coinvolgendo la popolazione locale. Per il suo piano Bush ha chiesto al Congresso altri 6 miliardi e ottocento milioni di dollari. I democratici sono contrari all’idea di inviare più truppe e di aumentare la spesa per l’Iraq, ma per ora hanno deciso di non opporsi al progetto bushiano malgrado una buona parte dei loro senatori e deputati, a cominciare da Ted Kennedy e Dennis Kucinich, spinga per negare i fondi necessari ad attuare la nuova strategia. Lo strumento scelto dalla leadership democratica per dire di no, ma senza scalfire il potere presidenziale di condurre la guerra, è quello di una risoluzione non vincolante che si limiti a esprimere un parere contrario alla decisione di Bush.
Ad occhi estranei al sistema costituzionale americano appare quasi incredibile che una nuova maggioranza parlamentare contraria alla guerra in Iraq, uscita di recente dalle urne, non riesca a imporsi sul presidente, anzi che addirittura debba assistere impotente a un rilancio dell’impegno statunitense in Iraq, sia in termini di uomini sia di denaro. La chiave di questa stranezza sta in un ampio dibattito politico e giuridico che dura da oltre duecento anni e risiede in due articoli della Costituzione americana, il primo e il secondo, rispettivamente comma 8 e comma 2. L’articolo 1 stabilisce che il Congresso, tra gli altri, ha “il potere di dichiarare guerra”. L’articolo 2, invece, recita: “Il presidente è Comandante in Capo dell’Esercito, della Marina degli Stati Uniti e della Milizia dei diversi Stati”. In sintesi, come ha spiegato il senatore democratico Joe Biden a “Meet the Press” domenica mattina, avendo già autorizzato l’uso della forza nell’ottobre 2002 ora il Congresso può fare poco per impedire a Bush di ampliare la missione americana in Iraq: “Costituzionalmente, se vuole, il presidente può tenere le truppe lì per sempre”. Il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha ribadito al New York Times, con un esempio assai chiaro, l’importanza, in tempo di guerra, del potere esecutivo affidato al presidente: “Non si può far gestire una guerra a un comitato composto da 435 persone alla Camera e 100 al Senato”.
I fondi necessari
A grandi linee il Congresso ha un solo strumento a disposizione per porre fine a una guerra, quello di negare i fondi necessari al suo svolgimento, una misura raramente adottata perché in un paese serio non è semplice togliere i fondi ai connazionali impegnati in zone di combattimento. L’ultimo caso è quello del 1972, quando l’allora Congresso repubblicano decise, ma non in disaccordo con la presidenza Richard Nixon, di non finanziare più l’intervento militare in Vietnam. Spiega Gary Schmitt, esperto dell’American Enterprise Institute, che “una volta che la guerra comincia, il presidente ha la più completa discrezione sulla disposizione delle truppe, mentre il Congresso ha l’autorità di fermare la guerra, negandone il finanziamento”. Il conflitto costituzionale, di cui si avvertono ora le avvisaglie, comincia nel momento in cui il Congresso usa il suo potere di spesa per cercare di influenzare la discrezione presidenziale nella gestione della guerra: “In base alla Costituzione – spiega Schmitt – il Congresso può dire sì o no, fornire le risorse o negarle, ma una volta che il conflitto è iniziato non può usare questi poteri per dire al presidente come dovrà usare queste risorse”. Ovviamente non tutti sono d’accordo con questa interpretazione, tanto che l’istituto liberal Center for American Progress, proprio in questi giorni, ha distribuito un paper per ricordare tutti i casi in cui il Congresso ha chiesto limiti, modi e condizioni degli interventi militari americani all’estero. Su questi precedenti si basano sia il progetto di legge di Ted Kennedy sia le accuse che la parte più radicale del Partito democratico fa ai suoi leader, convinti invece di dover restare entro i canoni condivisi dell’interpretazione costituzionale. C’è addirittura chi sostiene che il presidente, da comandante in capo, non abbia nemmeno l’obbligo di cercare l’autorizzazione del Congresso quando deve difendere la sicurezza nazionale. Uno dei presidenti ad aver seguito questa dottrina è Bush, un altro Abramo Lincoln. (segue a pagina due)
(segue dalla prima pagina) Anche Bill Clinton ha condotto una guerra, quella del Kosovo del 1999, senza una formale dichiarazione né una semplice autorizzazione del Congresso, anzi con la palese contrarietà dell’allora maggioranza repubblicana. Gli esempi sono decine e decine, spiega John Yoo, l’ex consigliere giuridico di Bush. Il più eclatante è quello della guerra in Corea degli anni 50, ma anche l’intervento in Iraq è stato soltanto autorizzato, senza la formale dichiarazione di guerra del Congresso. La guerra sui poteri di guerra risale ai tempi dell’indipendenza dalla Corona britannica (1776). I federalisti avrebbero voluto limitare i poteri esecutivi del presidente, compresi quelli di guerra, proprio per allontanarsi dal modello inglese. Le costituzioni dei singoli stati americani affidarono infatti blandi poteri di guerra ai governatori, mentre gli articoli della Confederazione non prevedevano una sola persona a capo della politica estera e di difesa. Pochi ricordano, però, che la Costituzione americana (1787) è stata scritta dieci anni dopo l’indipendenza e che, in quei dieci anni, i Padri fondatori hanno intuito la necessità di avere un potere esecutivo energico e indipendente rispetto a quello legislativo. Da pragmatici, in soli dieci anni, gli americani si sono liberati del loro pregiudizio anti potere esecutivo, dovuto alla guerra contro il re d’Inghilterra e hanno creato un modello di separazione dei poteri volto a liberare il potere esecutivo, non a reprimerlo. I Padri fondatori, su questo punto, sono stati influenzati dalle teorie di John Locke e Montesquieu, convinti che il potere di guerra e di pace fosse di natura esecutiva. Alla Convenzione di Filadelfia si arrivò con l’articolo della Costituzione che dava al Congresso il potere di “fare la guerra”, ma su proposta di James Madison fu ridotto a semplice potere di “dichiarare guerra”.
“Separazione dei poteri e pesi e contrappesi sono due cose diverse – spiega Schmitt – I pesi e i contrappesi sono bilanciamenti alla separazione dei poteri volti ad assicurare che ciascun ramo istituzionale resti nel proprio confine di competenze, non per rendere impossibile l’efficacia di governo. Questo è un mito creato tra il 1890 e gli inizi del Novecento dai progressisti che volevano introdurre elementi del sistema parlamentare”. La tendenza è stata, invece, opposta, peraltro già dai tempi di Lincoln, il quale nel 1861 sospese l’habeas corpus senza autorizzazione del Congresso per combattere la guerra civile. Ma è stato Franklin Delano Roosevelt a trasformare la Casa Bianca in quella che, nel 1960, il politologo liberal Arthur Schlesinger ha chiamato “presidenza imperiale”.

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