Camillo di Christian RoccaGore vince l'Oscar e aspetta quieto la crisi di Hillary e Obama

Milano. Ora che è arrivato l’Oscar per il documentario ambientalista – e in attesa, magari, del Nobel per la Pace – i riflettori della politica americana sono tornati a illuminare Al Gore, il vicepresidente di Bill Clinton che nel 2000 non è entrato alla Casa Bianca per poche migliaia di schede annullate in Florida. Al Gore non è candidato alle presidenziali del 2008, ma è come se lo fosse. Lui lo sa e ci marcia, tanto che lunedì notte, sul palco degli Academy Awards, ha fatto finta di annunciare ufficialmente la sua candidatura con uno sketch che, proprio nel momento clou, è stato interrotto dalla partenza dello stacco musicale. Il direttore del New Yorker, David Remnick, ha scritto che se i favoriti democratici, Hillary Clinton e Barack Obama, nei prossimi mesi dovessero incontrare problemi, allora scatterebbe l’ora di Al Gore. Un ritorno in campo che ricorderebbe quello di Richard Nixon, sconfitto nel 1960 da John Kennedy ed eletto nel 1968 grazie anche al discontento per la guerra democratica in Vietnam.
Gore va fortissimo, piace ai liberal ai quali non era mai andato giù fino in fondo. Il Washington Post lo racconta come una rock star, i divi di Hollywood se lo contendono. Gore appare meno rigido del solito. Si diverte e sembra essersi finalmente liberato del peso di una vita costruita a tavolino per diventare presidente. Da quel novembre 2000, ogni volta che appare in pubblico Gore ripete come un mantra sempre la stessa battuta: “Buon giorno, mi chiamo Al Gore e mi è capitato di essere il prossimo presidente degli Stati Uniti”. L’idea che diventi davvero il prossimo presidente ora però non è più peregrina. A differenza di Hillary, Gore è stato contrario all’intervento in Iraq fin dall’inizio, sebbene ai tempi di Bill sia stato un superfalco nonché sponsor di quell’Iraqi Liberation Act che ha cambiato la politica americana sull’Iraq, spostandola dal “contenimento” al “cambio di regime”. Rispetto a Obama, invece, Gore può contare su una straordinaria esperienza politica. Infine c’è la sua predisposizione a guardare avanti, al futuro. “The vision thing”, dicono gli strateghi elettorali e quelli che amano chiamarlo “Goracle”, “l’oracolo Gore”. I comici dei talk show notturni continuano a fare battute sulla sua antica pretesa di aver inventato Internet, ma al di là delle esagerazioni è vero che Gore è stato il primo politico a parlare di quelle autostrade informatiche che in seguito ci avrebbero cambiato la vita. Ora c’è l’ambientalismo, di cui è sempre stato promotore, in particolare la grandiosa battaglia per la salvezza della Terra che lo ha trasformato in una star globale, facendo dimenticare la sconfitta del 2000, cioè un’elezione che dopo gli otto anni di boom economico clintoniano sembrava impossibile da perdere. I democratici lo hanno accusato prima di essersi distaccato da Clinton, poi di non aver contestato con la necessaria cattiveria la decisione della Corte suprema di fermare il riconteggio delle schede della Florida. Gore s’è ritirato in silenzio nel suo cottage in Tennessee, s’è fatto crescere la barba, è ingrassato. Due anni dopo si è battuto contro la guerra in Iraq e le mille cose che non gli piacevano dell’Amministrazione Bush, trasformandosi da centrista nel beniamino della sinistra radicale. Il film sul surriscaldamento terrestre gli ha ridato la statura, tanto che la sua ex stratega elettorale, Donna Brazile, – una che dopo la sconfitta del 2000 aveva detto di “no, assolutamente no” all’ipotesi di ricandidatura nel 2004 – ora è pronta a tornare a lavorare con lui.
Gore ha detto di non avere “nessun progetto di candidarsi”, frase in codice per non escluderne la possibilità. Non ha formato comitati esplorativi, non sta raccogliendo fondi, ma nei prossimi mesi parteciperà a tre eventi di grande impatto mediatico: il 21 marzo sarà il protagonista delle audizioni al Congresso sull’effetto serra; a maggio uscirà il suo libro-manifesto dal titolo “L’assalto alla Ragione”; il 7 luglio guiderà il mega concerto Live Earth per salvare le foreste. I sondaggi, intanto, segnalano che il 41 per cento dei democratici lo vedrebbe bene alle primarie. Avrà tempo fino alla fine dell’anno, esattamente come fece nel 1991 Bill Clinton, quando aspettò il ritiro dei due big democratici, Mario Cuomo e Sam Nunn, prima di annunciare la sua candidatura.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter