Camillo di Christian RoccaLa cabala neoliberal d'America

I neoliberal sono morti, non esistono più, travolti dal radicalismo dell’ala sinistra del Partito democratico. Macché, sono vivissimi, le loro idee in realtà hanno vinto la battaglia ideologica dentro la sinistra americana e riporteranno i democratici alla Casa Bianca nel 2008. Il dibattito politico e culturale nel mondo liberal è cominciato un anno e mezzo prima delle elezioni presidenziali sui giornali e sui blog, complice un Partito democratico in crescita soprattutto grazie alla disaffezione popolare nei confronti di George W. Bush e della guerra in Iraq, più che per una sua strategia coerente, un’idea condivisa e una visione comune del ruolo dell’America nel mondo. Gli ultimi ad averci tentato sono stati i cosiddetti neoliberal, un gruppo d’avanguardia intellettuale nato negli anni Ottanta dopo i disastri politici e culturali cui la New Left aveva condotto il Partito democratico negli anni post Vietnam.
Il dibattito odierno è se i neoliberal siano spariti, se siano ridotti a un ruolo di pura testimonianza e, dunque, oscurati dall’odio antiBush, dal moralismo pacifista e dalla radicalità della “netroots”, cioè della base elettorale arrabbiata e mobilitata su Internet. Alcuni elementi sembrano confermare questa tesi, viste le prime mosse del Congresso democratico uscito dalle elezioni di metà mandato, ma anche per la presidenza del partito affidata a Howard Dean, per l’allontanamento di Joe Lieberman dal partito e per l’improvviso spostamento a sinistra di un candidato presidenziale come John Edwards che due anni e mezzo fa stava saldamente nel fronte centrista.
Sul piano politico, questa nuova incarnazione politica dei democratici è protezionista sulle questioni economiche, pacifista e isolazionista in quelle di politica estera e tendenzialmente favorevole a un intervento pubblico dello stato per poter garantire la copertura universale dell’assistenza sanitaria, una battaglia che la presidenza Clinton aveva subito abbandonato alle prime critiche sull’Hillarycare dell’allora first lady.
Altri elementi, invece, vanno nella direzione opposta e sembrano dimostrare che i neoliberal abbiano definitivamente vinto la partita interna ai democratici e che ora siano talmente indistinguibili dalla corrente principale del Democratic Party da poter tranquillamente dichiarare conclusa la loro esperienza. Lo dimostrerebbe, tra gli altri, il fatto che i centristi e i moderati come Hillary Clinton e Barack Obama, ma anche il governatore del New Mexico Bill Richardson, sono in testa a tutti i sondaggi tra gli elettori democratici che il prossimo anno dovranno scegliere con le primarie il candidato alla Casa Bianca.
La mutazione genetica della sinistra americana non sarebbe comunque una cosa nuova. Il disfattismo, l’autolesionismo e, per certi versi, l’antiamericanismo made in Usa della sinistra degli anni Sessanta e Settanta aveva preso il sopravvento sulla tradizione politica di un partito che trent’anni prima aveva individuato nella minaccia sovietica il nemico principale da cui difendere l’american way of life e il modello di vita liberale del mondo occidentale. La sensibilità neoliberal nacque in reazione a questa trasformazione della sinistra americana e, come spesso accade negli Stati Uniti, trovò spazio sulle pagine di due riviste – il mensile Washington Monthly e il settimanale, ora quindicinale, New Republic – proprio con l’esplicito tentativo di recuperare il liberalismo delle origini, nato anch’esso sulle pagine di New Republic all’inizio del secolo scorso e profondamente diverso dall’omonima corrente politica europea. Il moderno liberalismo americano, cui si sono ispirati i neoliberal, è nato con i presidenti democratici Woodrow Wilson e poi con Franklin Delano Roosevelt e non è centrato sul lassez-faire, cioè sul principio che la mano del mercato alla fine riesca ad aggiustare tutto. Quei due presidenti democratici, a loro volta, si erano ispirati a uno dei padri fondatori della Repubblica americana, ad Alexander Hamilton, in quanto credevano che lo stato dovesse aumentare il peso nella società al fine di proteggere l’individuo, il lavoratore e il ceto medio, senza per questo rinnegare i principi del capitalismo. Al contrario, l’obiettivo dello “statismo hamiltoniano” rivisto dai due grandi presidenti liberal era quello di mitigare le asprezze e gli eccessi di una società fondata sul business e sul libero mercato per prevenire le inevitabili rivolte popolari che avrebbero potuto aprire un pericoloso varco al socialismo e magari, in seguito, condotto alla perdità delle libertà economiche e individuali garantite dalla Costituzione federale. Sul fronte della politica estera e della sicurezza nazionale, il liberalismo americano era interventista, anti-isolazionista, ideologicamente destinato all’ampliamento della comunità delle democrazie e all’istituzione di grandi alleanze internazionali oltre che di organi multilaterali per difendere la sicurezza e la stabilità del mondo conquistata con sanguinose e costose guerre.
I lunghi anni dell’intervento militare in Vietnam, ideato in funzione anticomunista dal clan kennediano e poi condotto al disastro dal vice di Jfk, Lyndon B. Johnson, hanno messo in crisi il liberalismo americano, malgrado fossero ancora vivi i successi sul fronte dei diritti civili raggiunti al costo della perdita della corrente sudista dei dixiecrats, ovvero di quei democratici del sud favorevoli al mantenimento della segregazione razziale. L’emorragia di voti successiva al trauma del Vietnam ha portato alla nascita dei Reagan’s Democrats, un ben identificato gruppo sociale di elettori democratici di ceto medio suburbano, infastiditi dal radicalismo del partito e convinti a votare repubblicano grazie al messaggio ottimista del presidente-attore californiano, egli stesso un ex democratico. Nel ristretto, ma autorevole, campo degli intellettuali della sinistra newyorkese questi sono gli anni in cui si consolida definitivamente la spaccatura culturale e personale tra le due più influenti, quasi sorelle, riviste liberal di Manhattan, la New York Review of Books e Commentary, diventata l’una la bibbia della New Left e l’altra la centrale ideologica dei neoconservatori.
La Nuova Sinistra aveva vinto la partita, almeno fino all’avvento dei neoliberal. La data di nascita dei neoliberal è comunemente indicata nel 25 luglio 1981, quando Michael Kinsley scrisse su New Republic un breve saggio dal titolo “La vergogna dei democratici”. Il periodo d’oro dei neoliberal è stato quello dei New Democrats clintoniani giunti finalmente al potere. La data di morte, secondo David Brooks del New York Times, è quella delle elezioni di metà mandato dello scorso novembre, sebbene già Clinton avesse lasciato la Casa Bianca con meno senatori, meno deputati e meno governatori democratici rispetto al momento in cui è stato eletto. Nel 1981, l’allora giovane Kinsley – diventato poi conduttore di Crossfire sulla Cnn, fondatore di Slate, opinionista del Washington Post e capo delle pagine degli editoriali del Los Angeles Times – era stato scelto da Martin Peretz per dirigere New Republic e rinverdire i fasti del liberalismo delle origini. I suoi editoriali avviarono il dibattito sui neoliberal, influenzarono candidati presidenziali come Paul Tsongas, l’Al Gore degli anni Ottanta e Novanta e, ovviamente, Bill Clinton. La critica di New Republic al proprio partito fu feroce: i democratici erano visti con crescente indifferenza dagli americani, erano guidati da avvocati e burocrati disinteressati a qualsiasi valore politico, erano pronti a dire qualsiasi cosa pur di ottenere un dollaro di finanziamento ed erano ormai incapaci di rappresentare gli interessi popolari e dei poveri. “Il Partito democratico è crollato non solo politicamente, ma anche moralmente”, fu il commento finale di Kinsley.
In quel preciso momento nacque quel neoliberalism che poi ha allevato una generazione di militanti, dirigenti e funzionari dell’era d’oro clintoniana, oltre che riempire le pagine degli editoriali, le redazioni dei giornali e i centri studi vicini al Partito democratico. I neoliberal nati sulle pagine di New Republic e portati al potere da Bill Clinton erano liberal, ma non troppo. Rifiutavano le pressioni delle lobby femministe, laburiste e radicali tradizionalmente vicine al partito ed erano sospettosi delle vecchie politiche sindacali. Erano falchi in politica estera, favorevoli al capitalismo, riformatori del welfare state e cauti sulle questioni sociali.
Secondo David Brooks questa generazione di neoliberal non esiste più o perlomeno conta pochissimo rispetto agli arrembanti giovani bloggers radicali di Daily Kaos e MyDD. Ormai cinquantenni, se non sessantenni, i neoliberal sono in difficoltà di fronte ai giovani opinionisti di Internet cresciuti politicamente negli anni delle crociate repubblicane contro i comportamenti sessuali di Bill Clinton, ancora scottati dal caos post elettorale in Florida del 2000, dalla guerra in Iraq, dalle politiche ambientali, petrolifere e fiscali di Bush. I netroots non vogliono un movimento neoliberal che moderi il partito e proponga riforme, vogliono piuttosto un Partito democratico che combatta, che stia all’attacco e che assecondi la loro rabbia. Hanno vinto loro, dice Brooks, i neoliberal non ci sono più, sono stati utili, bravi e interessanti, almeno finché sono durati. Una sentinella della loro scomparsa sarebbe il cambiamento in corso a New Republic, la rivista che li ha creati. Il giornale di Martin Peretz è stato uno dei più lucidi sostenitori di sinistra dell’intervento in Iraq, una posizione ai tempi condivisa da John Kerry, da Hillary Clinton, da Ted Kennedy, da John Edwards e da tutti i leader del Partito democratico. Il direttore di questi anni, Peter Beinart, ha scritto un libro, The Good Fight, per rintracciare nella tradizione della sinistra americana le radici degli interventi militari volti a ribaltare i regimi dispotici e a sanare le ingiustizie globali. Negli ultimi mesi, con la situazione irachena sempre più lontana da una risoluzione pacifica, Beinart ha raddrizzato il tiro, prima criticando Bush, poi se stesso per aver sostenuto le ragioni della guerra.
Il numero dei lettori di New Republic, come sottolinea con soddisfazione l’ala pacifista di Internet, è crollato verticalmente rispetto ai fasti degli anni clintoniani, quando si diceva che per capire che cosa succedeva alla Casa Bianca si dovevano sfogliare le pagine della rivista. Contemporaneamente al tonfo in edicola di New Republic, in realtà dovuto anche all’avvento dell’opinionismo su Internet, un magazine considerato obsoleto ai tempi di Clinton, come The Nation, ha guadagnato copie su copie. New Republic ora ha cambiato editor e, secondo Brooks, anche linea politica. Peretz ha venduto ai canadesi di CanWest le sue quote, anche se è rimasto a far da chioccia ai giovani giornalisti. Beinart ha lasciato prima la direzione e, recentemente, la qualifica di editorialista per trasferirsi al Council on Foreign Relations e scrivere per Time magazine. Il nuovo direttore, scelto sempre da Peretz, è Frank Foer, il fratello dello scrittore Jonathan Safran Foer. La rivista è diventata quindicinale e si è spostata più a sinistra sia sui temi di politica interna sia su quelli di politica estera, tanto che ora attrae firme neopopuliste come quella di Thomas Frank, l’autore del libro “What’s the matter with Kansas” che un paio d’anni fa è stato il bestseller della denigrazione liberal nei confronti dell’America rurale e di provincia.
Jonathan Cohn, una delle firme del giornale, concorda in parte con l’analisi funerea di Brooks, accolta con sincera soddisfazione nel mondo dei bloggers: “Penso che il neoliberalismo sia una reliquia del passato”. La sua analisi però diverge sugli effetti della rivoluzione neoliberal nel mondo democratico. Secondo Cohn, i neoliberal in realtà hanno vinto, perché la cultura della responsabilità fiscale e del pareggio di bilancio sono diventati dogmi nel Partito democratico, quasi un’ossessione come ai tempi di Clinton. Chi ha fallito, secondo Cohn, sono gli esponenti neoliberal, non le loro idee, quindi è un bene che non contino più. La spiegazione di Cohn è questa: i neoliberal credono che talvolta i liberal costituiscono una minaccia per la sinistra ancora più grande di quella posta dai conservatori, perché spesso i liberal non vogliono riconoscere la fallibilità del settore pubblico e non prendono sul serio i risentimenti del ceto medio sulle tasse. Il punto, secondo Cohn, è che di mezzo ci sono stati gli anni della rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich, lo spartiacque per chiunque si consideri di sinistra. I repubblicani di Gingrich hanno organizzato un attacco concentrico allo stato sociale al quale i neoliberal avrebbero dovuto rispondere difendendolo, prima ancora di sottolinearne i difetti o di riformare il welfare come ha fatto Clinton.
“Il neoliberalismo non è morto, anzi ha vinto – ha scritto uno dei blogger citati da Brooks, Kevin Drum – Il motivo per cui non appare più un movimento vitale sta nel fatto che il Partito democratico ha assorbito l’ottanta per cento delle critiche neoliberal ed è andato avanti”. Questo, secondo Drum, “vale anche per molti giovani liberal che non si rendono pienamente conto delle radici culturali delle proprie sensibilità politiche”. Secondo Drum, l’errore dei neoliberal è stato quello di non aver capito che, dopo la rivoluzione conservatrice del 1994, la destra non aveva alcuna intenzione di trovare un terreno comune di accordo con la sinistra, anzi i conservatori hanno dichiarato guerra ai liberal, per cui ora nessuno si sorprenda se la sinistra si è finalmente liberata dei propri dubbi e ha cominciato a rispondere per le rime.
La tesi della parziale vittoria delle idee neoliberal non è condivisa da tutti. Un altro opinionista e blogger, Ezra Klein, ha scritto che le idee neoliberal non sono soltanto inadeguate ai tempi, sono soprattutto il frutto di un’ideologia che ha fallito. L’idea che i trattati di libero commercio come il Nafta avrebbero aumentato i salari, cioè la base ideologica della Rubinomics clintoniana e neoliberal, è miseramente fallita. La tesi antiNafta è discutibile, ma è vero he oggi la gran parte del Partito democratico si è spostata su posizioni critiche nei confronti di questo tipo di accordi di libero scambio, allora ideati dal ministro del Tesoro di Clinton, Robert Rubin, una delle menti più lucide e rispettate del mondo neoliberal.
La chiave di lettura decisiva per capire se i neoliberal abbiano perso o abbiano vinto la battaglia per l’egemonia del Partito democratico è quella della politica estera e di sicurezza nazionale. Anche qui i segni sono contrastanti e una risposta non è facile. A favore dell’idea brooksiana della fine del sogno neoliberal c’è il comportamento della nutrita compagine di deputati democratici, ma conservatori, eletti alle scorse elezioni di midterm. Fin qui, salvo rare eccezioni, i cosiddetti “blue dogs” hanno sempre votato tutte le risoluzioni antiguerra preparate dalla maggioranza del partito e dalla Speaker Nancy Pelosi. L’unico eletto che continua a difendere il suo voto del 2002 per destituire Saddam resta Joe Lieberman, l’ex candidato alla vicepresidenza nel 2000. Lieberman, però, è stato estromesso dal partito, si è dovuto candidare da indipendente e può essere considerato la prima vittima della trasformazione radicale del partito, alimentata dall’ala internettiana dei democratici. C’è altro. Il Democratic Leadership Council, ovvero il gruppo dei liberal moderati che sostenne Bill Clinton, ancora nel 2003 aveva presentato un progetto strategico per la sicurezza nazionale molto simile a quello ideato dalla Casa Bianca dopo l’11 settembre. Bush inneggiava al cambio di regime, i democratici clintoniani ribadivano il principio che “in medio oriente si deve sostenere la democrazia, non la stabilità”. Nelle scorse settimane, invece, il Dlc ha reso noto un progetto strategico di lotta al terrorismo di stampo neorealista basato sul dialogo diretto con l’Iran e la Siria. Lo stesso Bill Richardson, il governatore del New Mexico, ex ambasciatore Onu di Clinton e candidato democratico alla Casa Bianca con forti chance di ottenere la candidatura a vicepresidente, sembra aver dimenticato il suo impegno pro-democracy dei tempi in cui era presidente di Freedom House insieme con la zarina reaganiana Jeane Kirkpatrick. Ora invita l’America a dialogare con gli ayatollah iraniani e a ritirare le truppe dall’Iraq per pagare l’assistenza sanitaria a tutti gli americani, sebbene è probabile che lo faccia per non uscire anticipatamente dalla corsa.
Questo quadro dell’attuale politica estera dei democratici sembra dare ragione a David Brooks, quando dichiara la morte del neoliberalismo, un movimento che nel luglio 2003 aveva degli esponenti come Ken Pollack e Ronald Asmus orgogliosi di autodefinirsi tali sul Washington Post. Senonché proprio questa settimana sono comparsi due importanti articoli che lasciano intendere esattamente l’opposto. Il primo è uscito sul New York Times Magazine a firma di David Rieff, il figlio di Susan Sontag, mentre l’altro è di Michael Crowley ed è stato publicato su New Republic. Rieff ha condotto un’indagine tra i principali candidati democratici e ha scoperto che sebbene siano tutti più o meno concordi, oggi, sulla necessità di cambiare radicalmente registro rispetto alle politiche bushiane sull’Iraq, la stessa cosa non si può dire a proposito dell’Iran. Anzi, ha notato Rieff, le posizioni dei candidati democratici sul programma nucleare iraniano – un tema che certamente il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà affrontare – sono identiche a quelle dei repubblicani, addirittura a quelle di Dick Cheney. Sia l’attuale vicepresidente, considerato il male assoluto dalla base radicale del Partito democratico, sia Hillary sia Barack Obama sia John Edwards ripetono la stessa cosa, ovvero che contro le mire atomiche degli ayatollah di Teheran nessuna opzione, nemmeno quella militare, può essere esclusa dal tavolo. Rieff racconta ai lettori del liberalissimo New York Times una cosa scioccante: state attenti che “il conservatorismo che si fonda sulla grandezza nazionale sostenuto dai neoconservatori come Bill Kristol, e in larga parte adottato dell’Amministrazione Bush per preparare la guerra in Iraq, riecheggia nel liberalismo-per-la-grandezza-nazionale invocato dai principali esponenti democratici”, cioè nelle idee neoliberal di moda negli anni clintoniani. Rieff insiste e spiega che questo liberalismo fondato sulla grandezza nazionale, secondo l’ala più falca dei democratici è la caratteristica principale della politica estera democratica da Harry Truman in poi e, di conseguenza, qualsiasi passo tendente a perseguire ambizioni un po’ più modeste viene visto come una “debolezza alla McGovern destinata alla sconfitta”. In questo contesto, e malgrado l’attivismo pacifista dei militanti democratici, secondo Rieff la proposta di Hillary, Obama ed Edwards di ritirare le truppe dall’Iraq non nasce dal loro desiderio di far rientrare a casa i soldati americani, ma dalla necessità che possano essere inviati altrove. Il principio diventa palese nelle parole di Richard Holbrooke e Ivo Daalder, due esponenti neoliberal. Entrambi sostengono la tesi secondo cui l’Iraq è una distrazione dalla lotta globale contro il jihadismo, di conseguenza lasciare Baghdad libererebbe forze per perseguire la lotta altrove e in modo più efficace. Di nuovo, questa volta nelle parole di Rieff, la questione diventa quella di un partito profondamente diviso tra chi crede in una politica estera muscolare, cioè i neoliberal clintoniani evidentemente vivi e vegeti, e la soccombente base pacifista timidamente convinta che una politica di questo tipo, come dimostra l’esperienza bushiana, sia destinata a creare ulteriori disastri.
L’articolo di New Republic, invece, è su Hillary, anzi su quella che fin dal titolo viene definita “la guerra di Hillary”. Secondo Michael Crowley, la vera ragione per cui la senatrice di New York non chiede scusa, come hanno fatto molti suoi colleghi senatori su pressioni dell’ala pacifista, per il voto del 2002 con cui ha autorizzato Bush a invadere l’Iraq è che Hillary credeva davvero che fosse giusto invadere l’Iraq e probabilmente ci crede ancora oggi, nonostante i disastri e malgrado le ragioni della politica l’abbiano convinta a spostarsi sul fronte ritirista. L’idea che Hillary avesse votato a favore della guerra soltanto per costruirsi un curriculum da falca – una mossa popolare in quel momento e comunque necessaria per poter aspirare alla Casa Bianca – secondo la monumentale e documentata ricostruzione di New Republic, è smentita da alcune vicende inedite degli anni in cui era la first lady, oltre che dai suoi discorsi pubblici di tutti questi anni e dalla squadra di esperti di politica estera e di sicurezza nazionale con cui regolarmente la senatrice di New York si confronta. Oltre a Richard Holbrooke, Madeleine Albright e Sandy Berger, alcuni tra i liberal più falchi nella storia del Partito democratico, tra i consiglieri di Hillary c’è anche il generale Jack Keane, non un militare qualsiasi, ma l’ideologo della nuova strategia bushiana in Iraq, l’uomo che ha convinto la Casa Bianca a inviare altre 30 mila truppe a Baghdad. Hillary è contraria al piano Keane, ora in via di attuazione dal generale David Petraeus, ma ha fatto sapere di tenere in grande considerazione l’opinione del generale e di averne discusso a lungo con lui. Hillary, del resto, si è sempre trovata a suo agio con i militari e non ha mai lasciato definire le sue idee di politica estera dalla guerra in Vietnam come molti dei suoi coetanei, al punto che – particolare quasi dimenticato della sua biografia – nel 1975, pochi mesi dopo il rientro delle truppe americane dall’Indocina, Hillary è entrata all’ufficio reclutamento dei marines di Little Rock, in Arkansas, per arruolarsi nel corpo d’eccellenza dell’apparato militare americano. La sua richiesta è stata rifiutata, perché era donna, aveva già 27 anni e troppi gradi di miopia. Delusa dal rifiuto, Hillary decise che “avrebbe cercato un’altra strada per servire il suo paese”.
Al di là degli episodi biografici personali, Hillary è stata decisiva nelle scelte di politica estera e militare di suo marito, convincendolo a sfidare il pessimismo dei militari contrari all’intervento in Bosnia, ad Haiti, e poi in Kosovo, e a fregarsene delle precauzioni di buona parte dell’establishment americano consapevole che nel caso dei bombardamenti su Belgrado non ci sarebbe stata alcuna legittimazione internazionale. “L’ho esortato a bombardare”, ha detto lei stessa al mensile Talk, ricordando che mentre si trovava in Nord Africa chiamò al telefono il marito per dirgli che “non poteva lasciar passare questa cosa, alla fine di un secolo che ha visto il più grande olocausto del nostro tempo”. E aggiunse: “Che ci teniamo a fare la Nato se non per difendere il nostro modello di vita?”, una frase molto simile a quella che Madeleine Albright disse a muso duro all’allora capo di stato maggiore Colin Powell, contrario all’impiego della forza militare americana: “Che ce ne facciamo dell’esercito più potente del mondo, se poi non lo possiamo usare?”.
Meno noto e di più difficile ricostruzione è il ruolo assunto da Hillary nelle due occasioni in cui Clinton ha bombardato l’Iraq e nella decisione presidenziale di firmare l’Iraq Liberation Act, la legge del Congresso che ha fatto diventare politica ufficiale degli Stati Uniti la destituzione di Saddam e che ha creato la legione di esuli iracheni capitanati da Ahmed Chalabi. Quelli, in ogni caso, erano anni in cui il capo dei neoliberal in carica alla Casa Bianca diceva che il solo pensiero di armi biologiche saddamite lanciate sul National Mall di Washington “lo tenevano sveglio di notte”. Erano tempi in cui il presidente democratico sosteneva che “finché Saddam rimarrà al potere, certamente continuerà a minacciare il benessere della sua gente, la pace della regione e la sicurezza del mondo” e ricordava che “la minaccia credibile dell’uso della forza e, quando necessario, l’uso reale della forza, restano la via più sicura per contenere il programma di armi di distruzione di massa di Saddam, limitare la sua aggressione e prevenire un’altra guerra nel golfo”.
I neoliberal, in realtà, queste cose hanno continuato a dirle anche dopo, e non erano molto diverse da quelle evocate proprio negli stessi giorni dagli eredi diretti di quei democratici che negli anni Settanta avevano contestato la deriva illiberale della New Left, fino ad essere costretti ad abbandonare il campo e ad essere accusati di deviazione “neoconservatrice”. In qualche modo, alla fine del 2002, si saranno sentiti di nuovo a casa quando Bill Clinton, come ricorda New Republic nell’articolo su Hillary, disse che “ci vorranno anni per ricostruire l’Iraq” e che “se lo facciamo, vogliamo che sia una democrazia laica, vogliamo che sia un modello condiviso per altri paesi mediorientali, vogliamo fare ciò che molte persone nell’Amministrazione Bush onestamente vogliono fare, cioè scuotere le fondamenta dell’autocrazia nel Medio Oriente e promuovere più libertà e più decoro”. A quel tempo, i neoliberal certamente c’erano.

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