Per la prima volta sembra che a Washington ci sia una seria volontà di cambiare il sistema sanitario americano, l’unico del mondo occidentale a non prevedere la copertura universale per tutti i cittadini. Non era mai successo che sette candidati democratici alla Casa Bianca presentassero ciascuno un progetto di copertura sanitaria universale e che due governatori repubblicani – uno dei quali candidato alla presidenza – approvassero una legge statale che garantisce a livello locale l’assistenza sanitaria per tutti. Anche la Casa Bianca ha un suo progetto di riforma, anche se di stampo liberista e non a copertura universale. La novità più clamorosa però è che la “Corporate America”, ovvero le grandi aziende del paese, comincia a pensare che la situazione non sia più sostenibile anche dal loro punto di vista e si è messa al lavoro insieme con i sindacati per trovare una soluzione all’aumento dei costi. I tempi sono lunghi, la strada è difficoltosa, ma se il prossimo presidente riuscisse nell’impresa di nazionalizzare in qualche modo il sistema sanitario sarebbe una rivoluzione epocale per gli Stati Uniti, paragonabile al New Deal rooseveltiano, che negli anni Trenta introdusse il sistema pensionistico, o alla Great Society di Lyndon B. Johnson, che negli anni Sessanta istituì i programmi sanitari federali per gli anziani e i poveri e, inoltre, fece diventare legge le istanze di giustizia del movimento dei diritti civili.
Riformare la sanità americana è un compito altrettanto ambizioso, ma anche più controverso. L’Amministrazione Bush si è spinta fino ad ampliare a dismisura il programma Medicare, attraverso un complicato sistema di aiuti alle compagnie assicurative per fornire gratuitamente le medicine a tutti gli anziani. La riforma bushiana è il più grande intervento pubblico americano degli ultimi quarant’anni. Il partito repubblicano l’ha approvato turandosi il naso, ma non ha consentito al presidente di cambiare il sistema sanitario nel suo complesso, bloccando al Congresso la proposta della Casa Bianca.
Il sistema americano è contemporaneamente il più affidabile, il più costoso e il più ingiusto tra i servizi sanitari mondiali. La domanda, da sempre, è come fare a ridurre i costi, ad ampliare la copertura e a mantenere il livello di eccellenza. Dal tentativo fallito di Hillary Clinton nel 1993-94, il famigerato Hillarycare che stava per affossare la presidenza di suo marito, il tema è diventato un tabù politico ed è praticamente scomparso dall’agenda di Washington, anche perché ogni volta che qualcuno lo rilancia riaffiorano le tre principali obiezioni all’idea di copertura sanitaria universale: il timore di perdere la libertà di scegliere medici e cura, la certezza che ci vorranno nuove tasse per pagare l’assistenza per tutti e l’esempio non proprio incoraggiante del sistema misto pubblico-privato in vigore in Canada dal 1971.
Il sistema sanitario americano è un gigante, di gran lunga è il più costoso del mondo. Nel 2004 gli Stati Uniti hanno speso nella sanità duemila miliardi di dollari, il 16 per cento del loro prodotto lordo interno, una percentuale che è più o meno il doppio di quella dei paesi del G-7. La cosa che pochi sanno è che metà di questi costi sono a carico del settore pubblico, malgrado il sistema sia privato e, in teoria, a carico delle aziende. La parte pubblica di questi duemila miliardi di dollari arriva addirittura a oltre il 60 per cento se si considerano anche le agevolazioni fiscali per le aziende che forniscono piani sanitari ai propri dipendenti e ai loro familiari. L’ultimo censimento, citato dall’Economist, dice che 174 milioni di americani ricevono la copertura sanitaria dall’azienda in cui sono impiegati oppure da quella del coniuge o dei genitori. Le aziende che forniscono le polizze ai propri dipendenti e in cambio ricevono riduzioni fiscali dal governo federale.
Altri 27 milioni di americani comprano individualmente le polizze di assicurazione, senza però poter dedurre un dollaro dalle loro tasse. Il governo fornisce direttamente l’assistenza sanitaria agli impiegati pubblici e attraverso il Medicare a 40 milioni tra anziani e disabili. Un programma di aiuti federali e statali (Schip) garantisce la copertura di due milioni di bambini che vivono in famiglie al di sopra della soglia di povertà, ma che sono sprovviste di un piano assicurativo. Infine, attraverso il Medicaid, Washington assiste anche i 38 milioni di poveri. Il saldo netto è di 46 milioni di americani non assicurati o perché non si possono permettere una polizza o per scelta. L’esercito di non assicurati riceve comunque, in modo gratuito, l’assistenza urgente nei pronto soccorso degli ospedali, il cui costo ovviamente incide sugli alti premi assicurativi di tutti gli altri americani. I difetti del sistema sono evidenti: il numero più alto di non assicurati in tutto il mondo sviluppato, una qualità dei servizi non uniforme e i costi altissimi dovuti principalmente al fatto che né i pazienti né i dottori hanno un reale interesse a controllare la spesa, visto che a pagare è una terza parte, cioè le assicurazioni o il governo. I pregi non sono da meno: una grande possibilità di scelta per il consumatore, un grado di innovazione altissimo, tanto che secondo Health Affairs otto delle dieci più importanti scoperte mediche degli ultimi trenta anni sono state fatte in America.
Il sistema americano – spiega il giornalista di New Republic, Jonathan Cohn, in un libro appena uscito dal titolo “Sick: the untold story of America’s health care crisis and the people who pay the price” – non è nato da un’accurata programmazione politica, piuttosto è il risultato di una serie di decisioni sconnesse che, al momento in cui furono prese, sembravano innocue, ma che alla fine hanno avuto un impatto profondo sulla società americana. La prima scelta risale alla Seconda guerra mondiale, quando l’Amministrazione Roosevelt stabilì che i fringe benefits come le assicurazioni sanitarie erano esentati dai rigidi controlli sui salari imposti durante la guerra. Le aziende furono incoraggiate a offrire più copertura sanitaria, proprio per attrarre lavoratori in un mercato del lavoro i cui salari erano rigidamente controllati dallo stato. Subito dopo Washington decise che i soldi spesi dalle aziende per comprare polizze sanitarie ai propri impiegati non erano soggetti a tassazione. Il risultato è stato la crescente domanda di questi benefits, visto che ogni dollaro ricevuto per pagare l’assicurazione sanitaria valeva più del medesimo dollaro ricevuto in busta paga e su cui, dopo, i lavoratori avrebbero dovuto pagare le tasse.
Negli ultimi anni i prezzi delle polizze sono aumentati a dismisura (dal 2000 a oggi dell’87 per cento, quattro volte più della crescita dei salari, tre volte più dell’inflazione) e le aziende tendono a limitare i benefit sanitari per restare competitive rispetto ai produttori dei paesi dove la manodopera costa di meno. Sono i 47 milioni di americani privi di assicurazione, secondo un esperto citato dal New York Times, a mantenere gli Stati Uniti competitivi. Alla fine degli anni Settanta, quasi il 70 per cento dei lavoratori americani era coperto da polizze fornite dalla propria azienda, ora soltanto il 50 per cento. Questa tendenza porterà gli Stati Uniti, nel 2020, a raddoppiare la quota di prodotto interno lordo per la sanità e, di conseguenza, a un aumento consistente delle tasse per pagarla.
Il problema è capire quale sia la soluzione. Gli esempi provenienti dal resto del mondo non sono incoraggianti, quindi le possibilità sono due: eliminare gli sprechi e riformare progressivamente l’attuale sistema oppure cambiarlo radicalmente e passare a una sanità gestita pubblicamente. Il presidente George W. Bush ha tentato l’approccio meno radicale, ma è stato costretto a fermarsi a metà strada. E’ riuscito a porre un tetto di 250 mila dollari alle cause di risarcimento danni, consentendo agli ospedali di risparmiare sulle milionarie polizze assicurative. Non ce l’ha fatta, invece, a imporre incentivi fiscali ai privati, a liberalizzare il mercato statale delle assicurazioni (oggi un newyorchese non può comprare un’assicurazione californiana e viceversa) né ad ampliare la scelta di aderire ai conti sanitari personali che avrebbero consentito la piena portabilità delle polizze assicurative da un posto di lavoro all’altro. L’altro punto centrale della riforma bushiana è quello di trattare le polizze assicurative più costose fornite dalle aziende come se fossero una voce dello stipendio, soggetta quindi alla tassazione. In questo modo entrerebbero nelle casse federali dieci miliardi di dollari l’anno. Tutti sostengono che il punto principale sia quello degli sprechi, ma anche l’incredibile arretratezza informatica del sistema sanitario di base, l’unico settore a non aver conosciuto una rivoluzione digitale.
Negli ultimi mesi sono stati alcuni governatori, peraltro repubblicani, ad affrontare la questione in modo inaudito. Pochi mesi fa il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha firmato una legge per risolvere il problema dei sei milioni e mezzo di californiani non assicurati. Il punto centrale della riforma è chiaro come nei film di Terminator: “Tutti devono avere un’assicurazione, chi non se la può permettere sarà aiutato a comprarla dallo stato, ma tutti devono essere assicurati”. Nell’aprile del 2006, esattamente un anno fa, il governatore repubblicano del Massachusetts Mitt Romney, oggi candidato per il Grand Old Party alla Casa Bianca, ha firmato una legge che impone l’assicurazione obbligatoria a tutti gli abitanti del suo stato. Il Massachusetts ha mezzo milione di non assicurati: alcuni di loro avrebbero diritto al Medicaid, ma non si sono iscritti. Altri non possono permettersi l’acquisto di una polizza. Un terzo gruppo di non coperti avrebbe la disponibilità economica ma preferisce non stipulare alcuna assicurazione, probabilmente perché giovani e in buona salute. Il piano Romney prevede una serie di sussidi per chi guadagna poco, detrazioni fiscali anche per i privati che acquistano una polizza e una pena di mille dollari per chiunque non si assicurerà. Le aziende dovranno fornire un piano sanitario ai dipendenti oppure pagare un contributo di 295 dollari allo stato per ogni impiegato. E’ ancora troppo presto per capire se queste due riforme risulteranno efficaci, anche perché negli unici due stati dove c’è stato un tentativo simile, in Maine e in Vermont, i risultati non sono stati incoraggianti.
L’atteggiamento della politica sulla copertura sanitaria universale è cambiato al punto che sono molti gli analisti a prevedere che l’health care sarà al centro della prossima campagna elettorale, un evento che soltanto l’anno scorso sembrava impossibile. I big repubblicani, ovvero Rudy Giuliani e John McCain, sono meno propensi ad affrontare il tema, tanto che nei loro siti parlano di tutto, tranne che di sanità. Mitt Romney invece ne fa il fiore all’occhiello della sua campagna, così come gli ex governatori del Wisconsin e dell’Arkansas, Tommy Thompson e Mike Huckabee, entrambi candidati alla Casa Bianca (Thompson è per la copertura universale, Huckabee punta sulla prevenzione). Un altro leader repubblicano, Newt Gingrich, ufficialmente non ancora candidato alla Casa Bianca, addirittura gira il paese per spiegare le sue idee rivoluzionarie per cambiare il sistema sanitario. Sul fronte democratico, la riforma sanitaria è già uno dei punti chiave di dibattito in vista delle primarie e, a Las Vegas, si è già tenuto un incontro pubblico durante il quale tutti i candidati presidenziali del partito, tranne Joe Biden, hanno presentato la loro ricetta per garantire l’assistenza ai 46 milioni di americani privi di copertura.
Hillary Clinton è, ovviamente, la più esperta della materia e, proprio per questo, anche la più cauta. Sa, per esempio, che “a molte persone va bene l’attuale sistema” e suggerisce al partito di non dare alla gente l’impressione che “il governo dirà che cosa fare e quale dottore scegliere”, piuttosto “lo stato dovrà fornire una scelta”. Il costo sarà enorme e “ci saranno alcuni investimenti”, ma bisogna puntare sulla modernizzazione del sistema. L’ex first lady non si sbilancia, lascia intendere che serviranno nuove tasse e sui tempi di realizzazione è molto prudente: “Il presidente Kennedy diceva che voleva l’uomo sulla Luna entro dieci anni, io vorrei la copertura sanitaria universale entro la fine del mio secondo mandato”. I suoi avversari hanno già cominciato a prenderla in giro, “fa già la campagna elettorale per la rielezione”, ma la sua è la previsione più realistica. Così come sembra altrettanto prudente l’avvertimento che si tratterà di una battaglia politica molto dura, perché vorrà dire “togliere soldi a chi in questo momento ne guadagna parecchi, a cominciare dalle compagnie assicurative”. Il governatore del New Mexico, nonché candidato alla Casa Bianca, Bill Richardson, sostiene invece che la sua Amministrazione riuscirebbe a garantire la copertura sanitaria universale entro la fine del primo anno e senza ulteriori aggravi fiscali, ma soltanto se la sua elezione sarà rafforzata da un successo democratico al Congresso. I costi, secondo Richardson, saranno coperti dal ritiro dall’Iraq: “Lasciamo Baghdad e spendiamo quei 400 miliardi di dollari per le necessità umane. Poi riduciamo le inefficienze e vedrete che non ci sarà bisogno di nuove tasse”.
John Edwards, tra tutti i candidati, è quello che punta di più sulla riforma sanitaria ed è anche il meno preoccupato a nascondere il costo per il contribuente americano: “Io voglio l’assistenza sanitaria per tutti gli americani. Tutti quanti ci dovremo assumere le nostre responsabilità: le aziende devono assicurare gli impiegati, il governo dovrà creare un mercato sanitario più equo e con maggiori scelte, ma tutti in America saranno obbligati dalla legge a essere coperti da un piano assicurativo”. Edwards pensa di imporre l’assicurazione esattamente come, già adesso, è obbligatoria per le automobili. Il suo progetto costerà dai 90 ai 120 miliardi di dollari e i soldi arriveranno da un consistente aumento delle tasse, che però lui preferisce addolcire chiamandolo “ulteriore fonte di introiti”. Formalmente Barack Obama è l’unico dei big a non aver ancora presentato un progetto dettagliato, ma due settimane fa ha detto che se entro un paio di mesi gli elettori democratici non troveranno il suo piano sul sito Internet, vorrà dire che la sua campagna elettorale correrà seri rischi. In linea generale anche il senatore dell’Illinois è favorevole alla copertura universale e spiega che bisognerà agire sugli sprechi e sulle inefficienze, ma non ha ancora previsto quante “entrate addizionali”, ovvero quante ulteriori tasse, sarà necessario imporre per pagarla.
Al Congresso, subito dopo la vittoria del partito democratico alle elezioni di metà mandato dello scorso novembre, il senatore liberal dell’Oregon, Ron Wyden, ha presentato un progetto di legge che, al momento, è la piattaforma comune scelta da alcuni sindacati e da un gruppo di grandi aziende come At&t, Wal-Mart e Intel. L’obiettivo della campagna “Better Health Care Together” è convincere lo stato a garantire a ogni cittadino americano un’assicurazione sanitaria di alta qualità e a prezzi sostenibili. Per anni l’unico a sostenere questa tesi è stato il proprietario di Starbucks, Howard Schultz, ora la presenza di grandi gruppi industriali è probabilmente il segnale più chiaro che, questa volta, i tempi di una riforma del sistema sanitario potrebbero essere maturi. Anche se, avvertono gli esperti, potrebbe sempre trattarsi dell’ennesimo miraggio.
11 Aprile 2007