Avete mai incontrato un libertario americano? Ne esistono di due tipi: uno somiglia ad Antonio Martino, l’altro a Marco Pannella. Il presidente del loro più grande centro studi, il Cato Institute di Washington, si chiama Ed Crane ed è la versione americana di un austero liberale europeo d’altri tempi. Il direttore della principale rivista libertaria, il mensile Reason, è il ben più ruspante Nick Gillespie, dotato di giubbotto di pelle, di ciuffo alla Elvis Presley e di un’insana passione per la cultura pop. Né l’uno né l’altro sono di destra o di sinistra. O, meglio, li trovi all’estrema destra sui temi economico-sociali e all’estrema sinistra sui diritti civili, gli unici capaci di andare d’accordo sia con il guru anti tasse Grover Norquist sia con i radicali della Aclu, l’associazione americana che difende le libertà civili. Vogliono che lo stato stia fuori dalle loro stanze da letto, così come dal loro portafogli.
I libertari di stretta osservanza criticano i repubblicani perché incapaci di tenere la barra dritta e troppo ossequiosi con la destra religiosa; sospettano dei democratici perché innamorati del big government e delle tasse; detestano i neoconservatori perché favorevoli al welfare e sostenitori dell’idea che lo stato debba promuovere la virtù. In realtà i libertari sono liberali classici di scuola austriaca, alla von Mises e Hayek, iperliberisti alla Milton Friedman, anti statalisti alla Murray Rothbard, ma anche dissacratori alla Parker e Stone, cioè i due creatori del cartone animato politicamente scorretto “South Park” (quello che la settimana scorsa ha fatto suicidare la regina d’Inghilterra) e del film “Team America” con cui hanno preso in giro l’impegno politico degli attori hollywoodiani. Considerati freddi economisti oppure bizzarri ragazzacci, i libertari-liberisti sostengono la moralità del capitalismo e la sua assoluta equivalenza con la libertà. Una delle eroine del movimento è stata la filosofa e romanziera Ayn Rand, nel cui circolo intellettuale ha mosso i primi passi Alan Greenspan, poi nominato da Ronald Reagan presidente della Federal Reserve.
I libertari americani sono “radicali per il capitalismo”, come li ha felicemente chiamati Brian Doherty in un libro di oltre settecento pagine appena pubblicato in America. “Radicals for Capitalism – A Freewheeling history of the modern american libertarian movement” racconta la loro storia, le loro vittorie e le loro sconfitte. Ma l’attenzione che si è creata intorno al libro – domenica ha ricevuto una recensione di un’intera pagina sul New York Times – si è però spostata sul futuro delle idee libertarie, sulla loro collocazione politica e su un ripensamento generale della loro filosofia di governo. Un saggio dell’editorialista economico del New York Times, Tyler Cowen, pubblicato sul sito del Cato Institute, ha scatenato uno dei più interessanti dibattiti culturali degli ultimi anni. Cowen ha invitato i libertari a riconoscere una terribile verità, la peggiore possibile per un liberista contrario per principio all’ingerenza dello stato nella vita individuale. La terribile verità, chiamata “il paradosso libertario”, è questa: le idee libertarie hanno sconfitto quelle stataliste e, di conseguenza, hanno contribuito a migliorare la vita e ad aumentare il grado di libertà. Questa ampia libertà non ha prodotto soltanto un maggiore benessere generale, ma anche una migliore qualità dell’intervento dello stato. Sicché il paradosso è che più grande è la ricchezza prodotta dalle politiche liberiste, più larga diventa la quota di intervento dello stato che la società si può permettere. Non solo: più lo stato opera bene, più la gente pretende un suo ulteriore intervento.
Il saggio sul paradosso dei libertari non è passato inosservato, anche perché Cowen ha detto di non essere affatto preoccupato da questo paradosso, come avrebbe dovuto essere un liberista duro e puro, anzi ha invitato i libertari a seguire senza timore questo naturale sviluppo delle loro idee, perché è nell’interesse dell’individuo e della società favorire un mondo con maggiore ricchezza e libertà. Chissenefrega, poi, se nel pacchetto c’è anche un maggiore peso dello stato.
“La vecchia formula era ‘l’intervento dello stato non va bene’ e ‘la libertà va bene’ – ha scritto Cowen – ma queste due cose non sono esattamente uguali nelle loro implicazioni. Il secondo motto, ‘la libertà va bene’, è più importante del primo e la vecchia storia che ‘l’intervento dello stato schiaccia la libertà’ è superato da un altro: ‘l’avanzamento della libertà conduce a un ruolo più grande dello stato’. I libertari non sono abituati a reagire a questa seconda storia, perché va contro il paradigma della ‘libertà contro il potere’. Ecco perché sono in crisi e contano meno rispetto agli anni Settanta e Ottanta”.
Cowen riconosce una cosa che gli intellettuali libertari e liberisti finora, anche dopo l’undici settembre, avevano sottovalutato, cioè che le principali minacce alla libertà oggi non provengono più dallo stato, non importa quanto sbagliate e fallimentari siano le sue politiche interventiste. Oggi esistono malattie pandemiche, disastri naturali, il surriscaldamento terrestre, il cambiamento di clima che costituiscono una minaccia ben più grave per le nostre libertà, “ma il problema principale è la proliferazione nucleare”, ha scritto Cowen, e c’è da chiedersi “come sarà il mondo quando piccoli e non rintracciabili gruppi isolati potranno permettersi un’arma nucleare o altre armi di distruzione di massa”. Cowen propone ai libertari di concentrarsi sulla libertà positiva, cioè sulla libertà di poter fare ciò che si vuole della propria vita, piuttosto che sulla libertà negativa che, invece, si preoccupa di sbarazzarsi delle regole imposte dallo stato.
Fare pace con lo statalismo non è una formula che possa andare giù a tutti i libertari. Gene Healy ha scritto che il ruolo dei libertari sarà sempre quello di ricordare che il welfare state impedisce all’essere umano di prosperare, che la guerra alla droga è un abominio, che l’interventismo statale del New Deal rooseveltiano è una bufala intellettuale. Brian Caplan, un altro studioso del Cato Institute, ha definito la provocazione di Cowen “il peggior consiglio mai fornito ai libertari”.
Il paradosso libertario, cioè l’idea di accettare la crescita del ruolo dello stato come effetto collaterale del maggiore benessere e della maggiore libertà, porta a due sbocchi possibili e opposti. Il primo è quello evocato da Brink Lindsey, il vicepresidente del Cato, che ha addirittura proposto una fusione con i liberal. Il secondo riconosce la portata innovativa della rivoluzione compassionevole di George W. Bush, da altri considerata una iattura. La questione è la solita di sempre: l’alleanza dei libertari con la destra religiosa ha ancora senso oppure è più utile cercare un punto d’intesa con i liberal? E, ancora: il conservatorismo bushiano è il superamento ideologico delle teorie liberiste e anti stataliste oppure è l’unica strada percorribile per tornare a influenzare la politica come ai tempi gloriosi di Reagan? Sul tema sono usciti libri, saggi e articoli di ogni tipo e si è aperto un dibattito i cui effetti vanno oltre il ristretto mondo libertario, anzi potrebbero decidere l’esito delle prossime elezioni presidenziali e cambiare il volto della politica americana nei prossimi anni.
Gli americani che si definiscono libertari sono il 15 per cento, una cifra di poco inferiore a quella di chi si definisce “liberal” o “conservatore”. Il columnist del New York Times John Tierney ha scritto che è difficile individuarli perché, al contrario dei liberal e dei conservatori, i libertari “non si radunano in chiese né in sale sindacali, non si mettono insieme per promuovere un programma politico, molti di loro nemmeno si definiscono libertari, anche se lo sono per il loro liberalismo sociale e il loro conservatorismo economico”.
L’editorialista del New York Sun e del New York Post Ryan Sager propone di ricostruire il rapporto con i repubblicani, messo in crisi dall’eccessivo peso dato in questi anni alle istanze della destra religiosa. Nel libro “The Elephant in the Room”, Sager sostiene che la chiave è scegliere un leader repubblicano alla Reagan, qualcuno in grado di riunificare l’anima libertaria e quella sociale del mondo conservatore. Sager crede che l’uomo giusto sia l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. All’obiezione del Foglio, un paio di giorni fa a Manhattan, sul fatto che Giuliani non è né un libertario né un conservatore sociale, Sager ha definito al ribasso questi due concetti: “Giuliani vuole abbassare le tasse, questo è sufficiente. Quanto alle sue posizioni etico-sociali, è vero che è favorevole all’aborto, alla ricerca sugli embrioni e ai diritti dei gay, ma culturalmente è un conservatore sociale di strettissima osservanza, uno di quelli convinti che i mali e la decadenza della nostra società abbiano avuto origine con la cultura lassista e antagonista degli anni Sessanta e Settanta”.
Brink Lindsey, al contrario, vede uno spiraglio per un’alleanza con gli antichi rivali liberal, malgrado i democratici siano il partito convinto che spetti al governo trovare le soluzioni ai problemi. In “The Age of Abundance – How Prosperity Transformed America’s Politics and Culture”, in uscita a maggio, il vicepresidente del Cato Institute spiega la formula segreta di questa alchimia tra la libertà sociale della sinistra e la libertà economica della destra. Lindsey chiede ai libertari di abbandonare i toni apocalittici del passato. Fino all’inizio degli anni Ottanta quei toni erano necessari, anche perché c’era un sistema economico, politico e ideologico che minacciava le libertà individuali e che, secondo Hayek, avrebbe condotto alla schiavitù. Non erano consentiti compromessi ed è stato giusto battersi per evitare il disastro, ma negli ultimi venticinque anni la politica ha adottato gran parte delle idee dei radicali per il capitalismo, certamente non tutte, e il risultato è stato che l’Apocalisse non è arrivata: “I libertari devono adattarsi alle attuali circostanze e riconoscere che un graduale progresso è l’unico tipo di progresso oggi a disposizione”. L’analisi è molto simile a quella di Cowen, ma Lindsey si spinge fino a proporre una fusione tra i libertari-liberisti e i liberal di sinistra e di conciliare Hayek con il filosofo liberal John Rawls.
La sua idea è quella di ripetere, a sinistra, lo storico incontro politico tra i conservatori tradizionali e i libertari liberisti nato negli anni Settanta da un’intuizione del giornalista ex comunista Frank Meyer. Conservatori e libertari, apparentemente distanti, avevano in comune il nemico comunista, perché sia gli uomini di fede sia i radicali per il capitalismo erano minacciati allo stesso modo dall’illiberalismo ateo dei sovietici. Caduto l’impero del male, i libertari sono rimasti vicini ai repubblicani perché più propensi a tagliare le tasse, a ridurre l’intervento pubblico, a riformare il welfare state.
Il paradosso libertario di Cowen è la base di questa ipotesi di fusione tra i libertari e i liberal, perché se i radicali per il capitalismo accettassero la crescita del “big government”, potrebbero mettere da parte tutte le altre differenze sui temi economici e fiscali. A sinistra la proposta ha ricevuto pochi consensi, anche perché il partito democratico è in una sua fase populista, protezionista e isolazionista. Secondo Lindsey, storicamente la sinistra e i libertari hanno ottenuto grandi risultati insieme, più di quanti ne abbiano ottenuti i libertari e i conservatori, sebbene le politiche economiche, la riduzione delle tasse e la fine della leva obbligatoria non siano cose di poco conto. I libertari-liberisti e liberal di sinistra, secondo il vicepresidente del Cato, possono consolidare questo flirt ideologico sulla base dei successi del passato – che vanno dall’abolizione della censura alla legalizzazione dell’aborto, dal divorzio al riconoscimento di maggiori diritti per gli accusati – ma anche sulla condivisione di soluzioni politiche sull’immigrazione, sulle cellule staminali, sui diritti dei gay e su una lotta al terrorismo senza limitazioni alle libertà civili. “Il paradosso dei libertari” conduce però a un ulteriore paradosso, individuato dall’editorialista del New York Times, David Brooks. E’ stato proprio George W. Bush, ovvero il principale responsabile dell’attuale frattura tra i libertari e la destra religiosa, ad aver intuito, nel 1999, la necessità di andare oltre il vecchio paradigma della “libertà contro il potere dello stato”. La vecchia formula per definire il conservatorismo americano – cioè il desiderio di proteggere i valori tradizionali dall’intrusione del governo – è stata sostituita dal suo conservatorismo compassionevole, secondo cui i repubblicani devono promuovere i valori tradizionali attraverso l’intrusione dello stato. La rivoluzione conservatrice bushiana, dunque, ha preso in prestito dai liberal l’idea di usare gli strumenti statali e federali per promuovere i propri obiettivi. Da qui le critiche degli intellettuali libertari per il gigantesco aumento della spesa pubblica, per l’ampliamento dei programmi federali, per il mega-finanziamento dell’istruzione e per l’idea di cambiare il volto del medioriente. La Casa Bianca non è riuscita a trasformare il conservatorismo solidale in una filosofia di governo affidabile, ma secondo Brooks i repubblicani sbagliano a voler inseguire i giorni gloriosi di Goldwater e Reagan e riggettare l’era Bush. Goldwater e Reagan sono stati leader importanti, ma non sono modelli per il futuro.
“E’ una stupidaggine”, secondo Brooks, pensare che tornando a essere il partito del governo minimo e della libertà individuale, i repubblicani tornino a vincere le elezioni, “è la diagnosi sbagliata della realtà attuale e quindi anche la ricetta sbagliata per il futuro”. Brooks cita il saggio di Tyler Cowen e condivide l’idea che molte delle grandi questioni che nel passato preoccupavano i libertari ora non ci sono più: “Negli anni Settanta, la gente normale e non ideologica aveva ragione a pensare che le prospettive future si sarebbero affievolite a causa di uno stato che faceva perdere l’entusiasmo”, ma oggi quelle stesse persone “sono meno preoccupate dalla minaccia alla propria libertà proveniente da uno stato opprimente, mentre sono più preoccupate dalle minacce poste da fenomeni senza forma, eppure pervasivi”, come “l’estremismo islamico, gli stati in rovina, la competizione globale, il riscaldamento della terra, la proliferazione nucleare”.
Il nuovo paradigma, secondo Brooks, è “la sicurezza porta la libertà”, perché chi ha un’assistenza sanitaria certa può cambiare lavoro più facilmente, chi si sente al sicuro dalle minacce terroristiche può vivere più liberamente la propria vita e così via. Brooks e Cowen arrivano alla stessa conclusione, ovvero che questo nuova consapevolezza pubblica non vuol dire che gli americani abbiano abbandonato ogni sospetto nei confronti dello stato interventista, anzi secondo i sondaggi la maggior parte crede ancora che le regolamentazioni governative facciano più male che bene. Pensano, però, che lo stato debba essere più attivo nel riparare le ineguaglianze. Questa è la filosofia politica della sinistra liberale americana, ma anche quella di George Bush.
6 Aprile 2007