New York. Leggete qui: “Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza, unilateralmente se è necessario, per proteggere noi stessi e i nostri interessi vitali quando siamo attaccati o minacciati di essere attaccati”. Non è George W. Bush. Ancora: “Il momento americano non è passato. Respingo quei cinici che dicono che questo nuovo secolo non possa essere un altro in cui, con le parole di Franklin Roosevelt, guidiamo il mondo nella battaglia contro il male e nella promozione del bene. Io credo ancora che l’America sia l’ultima e migliore speranza sulla terra”. Non è un documento del centro studi Project for a new american century. Di più: “Il mondo deve impedire all’Iran di acquisire armi nucleari e lavorare per eliminare il programma nucleare nordcoreano. Nel perseguire questo obiettivo, non dobbiamo mai escludere l’opzione militare”. Non è Cheney, così come non è Richard Perle ad aver definito il suo sostegno a Israele “incrollabile”.
La persona che ha pronunciato queste frasi è il senatore nero dell’Illinois, Barack Obama, la speranza dei democratici, l’unico contrario alla guerra in Iraq fin dall’inizio, quello di sinistra rispetto alla “falca” Hillary Clinton. Non sono frasi scappate di bocca, ma il cuore della strategia di sicurezza nazionale del candidato Obama. Lunedì, infatti, il senatore del Partito democratico ha tenuto a Chicago il suo primo importante discorso di politica estera, il primo di una serie di major speech sul tema. Obama era e resta fortemente contrario all’intervento militare in Iraq, crede che sia stato ideologicamente sbagliato e ora chiede di far rientrare le truppe, anche se da presidente – ha spiegato – lascerebbe un contingente militare in Iraq. Soprattutto ha detto che i soldati tolti dall’Iraq dovranno essere spostati in Afghanistan ed essere pronti a intervenire “per prevenire il caos” nella “regione” e a occuparsi delle minacce alla sicurezza israeliana e americana poste da “Hamas, Hezbollah” e “dall’Iran”.
Il secondo punto della politica estera di Obama è quello di rafforzare l’esercito americano, perché “l’abilità di mandare soldati sul terreno sarà decisiva per eliminare le reti terroristiche”. Così la sua proposta è di aumentare di 65 mila unità il numero dei soldati e di aggiungere 27 mila uomini al corpo dei marine. Il terzo pilastro della sua America, anzi il primo in termini di urgenza, sarà quello di distruggere, fermare e controllare la diffusione delle armi di distruzione di massa. Qui Obama ha citato due repubblicanoni mica male, Henry Kissinger e George Shultz, e i due democratici più falchi degli ultimi decenni, Sam Nunn e Bill Perry. Il quarto pilastro è quello dell’internazionalismo liberale, della riforma degli organi multilaterali e del rafforzamento della Nato sulla scia di Harry Truman, George Marshall e di un altro repubblicano, George Bush senior. Le critiche a Bush junior non mancano e ieri sono arrivati anche duri rimbrotti a Rudy Giuliani, il quale sostiene che con un presidente democratico aumenterebbe il rischio di un secondo 11 settembre.
In generale, Obama vuole “mantenere la nostra influenza nell’economia mondiale” e “concorda” con l’idea di Bush secondo cui “l’obiettivo dell’America è promuovere la libertà”. Questo è il futuro della politica estera americana, nel caso vincesse il senatore nero dell’Illinois. Il presente è diverso: nella settimana in cui il Congresso voterà il finanziamento della guerra in Iraq, Nancy Pelosi ha scelto di non andare all’incontro a porte chiuse di ieri in cui il generale David Petraeus ha raccontato che cosa sta succedendo sul campo, limitandosi a parlargli al telefono. Prima ancora di ascoltare Petraeus, il leader democratico al Senato Harry Reid ha detto che la “guerra è persa”, facendo sorgere parecchi dubbi anche a un bel po’ di democratici.
26 Aprile 2007