Camillo di Christian RoccaBush pone il veto, i democratici ritirano il ritiro

New York. Come previsto, martedì sera George W. Bush ha posto il secondo veto della sua presidenza – contro i 37 di Bill Clinton, i 44 di Bush senior e i 78 di Ronald Reagan – per bloccare la legge approvata dal Congresso democratico che ha aggiunto, ai 100 miliardi di dollari chiesti dal Pentagono per finanziare la nuova strategia militare a Baghdad, anche un calendario di ritiro dall’Iraq, una serie di paletti che se il governo iracheno non dovesse rispettare accelerebbero il rientro delle truppe americane e, infine, 24 miliardi di dollari di spese clientelari per convincere una decina di deputati democratici. Bush ha firmato il veto con una penna fornitagli dal padre di un marine morto in Iraq e ha detto che quel testo è una “ricetta per il caos e la confusione”. Malgrado la legge fosse stata approvata la settimana scorsa, i democratici hanno aspettato il primo maggio per mandare al presidente il testo, in modo da far coincidere l’evento con il quarto anniversario del famigerato discorso di Bush a bordo della portaerei, quello sulla “missione compiuta”. La guerra al terrorismo, a oggi, è costata ai contribuenti americani 503 miliardi di dollari, una cifra pari a 14 finanziarie italiane. Aprile è stato uno dei mesi più pesanti in termini di vittime americane, oltre cento, malgrado dal campo arrivino segnali positivi, compresa l’uccisione, non confermata, del nuovo capo di al Qaida in Iraq. Bush ha firmato il veto pochi minuti dopo aver ricevuto il testo e, ieri sera, ha ospitato i leader del Congresso per provare una mediazione. La situazione è questa: i democratici non hanno i numeri per superare il veto presidenziale, anche se Barack Obama si è impegnato per trovare i 16 voti repubblicani necessari al Senato. Ieri sera, però, un simile – e più facile – tentativo alla Camera da parte di Nancy Pelosi è stato sconfitto nettamente. Il Pentagono ha fatto sapere che il primo giugno cominceranno a mancare i fondi alle truppe in Iraq, sicché la battaglia tra Bush e i democratici sarà persa da chi resterà con il cerino acceso in mano. Bush chiede al Congresso di finanziare la strategia irachena, di lasciarla gestire ai generali e di mettere da parte la politica. Il leader dei democratici al Senato, Harry Reid, invece è convinto che questa vicenda consentirà al partito di “guadagnare un paio di seggi” alle prossime elezioni. L’ala sinistra dei democratici vuole negare del tutto i fondi ai militari, cosa che i leader al Congresso per il momento non sono disposti a fare. Il candidato presidenziale Bill Richardson suggerisce di de-autorizzare la guerra, visto che era stata giustificata sulla premessa delle armi di distruzione di massa che, in realtà, non sono mai state provate. L’ala centrista sostiene che l’America farebbe bene a concentrarsi sulla lotta ad al Qaida, invece che sull’Iraq, ma non spiega come le due cose possano essere compatibili visto che al Qaida si trova proprio in Iraq. Il più pacifista tra i candidati big alla Casa Bianca, John Edwards, trasmette spot tv con cui invita il partito a rimandare al presidente lo stesso testo e, se Bush ponesse di nuovo il veto, di continuare a farlo fino a quando la Casa Bianca sarà costretta ad accettarlo. Il deputato John Murtha propone un finanziamento di soli due mesi, per continuare a tenere Bush sotto torchio. Un altro, Dave Obey, spinge per approvare due diverse leggi: una sul finanziamento, l’altra sul ritiro. I più in imbarazzo sono Hillary e Obama: non vogliono negare i soldi ai soldati sul campo, una mossa che pagherebbero alle elezioni generali, ma temono che se cedessero potrebbero perdere voti alle primarie a favore di Edwards, il quale non essendo senatore è più libero di muoversi a suo piacimento. Qualche repubblicano è disposto ad accettare l’imposizione dei paletti al governo iracheno e teme che l’intransigenza di Bush possa costare caro al partito. La Casa Bianca sembra disposta ad accettare un unico compromesso: subito i soldi alle truppe, resti il calendario di ritiro, ma a patto che non sia vincolante.