Camillo di Christian RoccaCaos democratico

Manchester (New Hampshire). Siamo uniti, dice Hillary Clinton. No, siamo divisi, ribatte John Edwards. Sulla guerra avevo ragione io, si intromette Barack Obama. Sì, ma tu e Hillary non avete fatto niente per fermarla, accusa Edwards (uno che al tempo l’aveva autorizzata). Ah, sì? Benvenuto quattro anni e mezzo dopo di me, replica Obama. Al Senato non abbiamo i numeri per dire no alla guerra, ragiona Joe Biden, il quale però è tra quelli che la settimana scorsa hanno detto di sì. E’ la guerra di Bush, dice Hillary. No, è anche la guerra del Partito democratico, urlano Dennis Kucinich e Mike Gravel, come lei candidati del partito democratico alla Casa Bianca. La guerra al terrorismo non è una cosa seria, ma uno slogan politico, minimizza Edwards. Uccidere Bin Laden sarebbe sbagliato, rilancia Kucinich. La decisione di Bush di invadere l’Iraq ha reso l’America meno sicura, declama Obama. Non sono d’accordo, oggi siamo più sicuri rispetto all’11 settembre, argomenta Hillary Clinton nell’unico momento in cui George W. Bush non è sembrato un avversario più pericoloso del capo di al Qaida. L’Iraq fa sbandare il partito democratico americano, indeciso su tutto nella principale questione di politica estera di questi anni. Si è visto chiaramente domenica sera, all’università benedettina di Saint Anselm, nel cuore del New England, in occasione del secondo dibattito presidenziale tra gli otto candidati democratici alla Casa Bianca. Ad accogliere i candidati, sul vialone principale del college cattolico che porta alla sala del dibattito, c’erano manifestanti che chiedevano al Partito di far uscire l’America dall’Iraq, altri che lo accusavano di essere corresponsabile della guerra, altri ancora che definivano l’11 settembre un “inside job”, un’opera dei servizi segreti e della cricca bushiana. A tratti è sembrata una riunione del Partito democratico italiano, allargata anche alle sinistre estreme. La differenza è che il caos odierno è un processo democratico che sarà risolto con un voto e con la scelta di un leader. A quel punto sarà il vincitore delle primarie a far parlare il Partito con un’unica voce, mentre gli altri non conteranno niente. Sull’Iran c’è stata più armonia, trattandosi di un pericolo ipotetico e, probabilmente, non ancora considerato attualissimo, visto che se ne è parlato soltanto dopo un’ora e venti di dibattito, molto dopo il dibattutissimo tema dell’apertura dell’esercito a gay e lesbiche. Tutti i big, Hillary, Obama e Edwards, sono stati espliciti nel giudicare inaccettabile che il regime degli ayatollah si doti di armi nucleari. Anche il più pacifista dei tre, John Edwards, ha spiegato che nessun presidente serio escluderebbe l’ipotesi di usare la forza per fermare Teheran. Joe Biden, il più falco sull’Iraq, è sembrato più tiepido sull’Iran, promettendo che in caso di elezioni abbandonerebbe subito la politica del regime change, del cambiamento di regime, quasi fosse la causa primaria della corsa iraniana alla bomba: “E’ bizzarro: stiamo dicendo all’Iran di rinunciare all’unica cosa che ci impedirebbe di attaccarli, in modo da poterli attaccare subito dopo”. Hillary più presidenziale di Obama Non ci sono stati due che hanno detto la stessa cosa sulla politica estera, con Hillary a tentare di sminuire le divisioni sull’Iraq e tutti gli altri a sottolineare le grandi differenze. Il momento decisivo è stato quando ha difeso l’operato di Bush contro il terrorismo: “Oggi siamo più al sicuro di sei anni fa”. Lo ha confermato al Foglio David Axelrod, il capo della comunicazione della campagna di Obama: “E’ questa la grande differenza tra Obama e Hillary, lui crede che Bush e la guerra in Iraq ci abbiano reso meno sicuri”. L’altro momento chiave del dibattito è stato quello sulla crisi in Darfur. Quando Wolf Blitzer della Cnn ha chiesto ai candidati se fossero d’accordo con la posizione di Biden, secondo il quale si dovrebbe usare la forza militare per fermare il genocidio in Sudan, sono saltate le regole e i candidati hanno cominciato a urlare e a parlare contemporaneamente. Il motivo è questo: lo spostamento nel campo pacifista dell’asse politico del Partito democratico è arrivato al punto da far considerare sbagliato un intervento militare per fermare un genocidio. Bill Richardson, per esempio, ha escluso l’invio delle truppe e ha proposto come misura per fermare i massacri in Sudan di boicottare le Olimpiadi a Pechino. Mark Penn, lo stratega numero uno della campagna elettorale di Hillary Clinton e già sondaggista segreto di Silvio Berlusconi, dopo aver confidato al Foglio che al momento non è più tra i consiglieri del Cavaliere, assicura che la tradizione interventista della sinistra anglosassone, quella blairiana e clintoniana, non è scomparsa, soltanto messa da parte temporaneamente a causa della predominanza delle cattive notizie provenienti dall’Iraq e del peso dell’elettorato pacifista alle primarie democratiche. Il fronte Hillary, dopo il dibattito di domenica sera, si sente ancora più forte di prima. I sondaggi continuano ad essere eccellenti e le performance tv della senatrice molto più “presidenziali”, come non si stancano di dire i suoi supporter, di quelle di Obama. Al momento, grazie a una geniale mossa di soffiate preventive ai giornali, sembra disinnescata la minaccia dei libri anti Clinton, uno dell’eroe del Watergate Carl Bernstein e l’altro di due giornalisti del New York Times, quest’ultimo anticipato domenica sul giornale newyorchese con la notizia che Hillary, prima di votare per la guerra, non aveva letto il rapporto Cia sull’Iraq .

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