Manchester (New Hampshire). Rudy e Fred, Fred e Rudy. Sono stati loro due, Giuliani e Thompson, i protagonisti del terzo dibattito televisivo, questa volta organizzato dalla Cnn, tra i politici repubblicani candidati alla successione di George W.. Le elezioni primarie, quelle per scegliere chi sfiderà il candidato del partito democratico nel novembre 2008, si terranno tra sei mesi, all’inizio di gennaio. Si comincerà proprio dal New Hampshire, il piccolo stato del New England il cui motto, che si legge sulle targhe delle automobili, è “Live Free or Die, vivi libero oppure muori”, slogan subito fatto proprio martedì sera da Rudy Giuliani. Il New Hampshire è lo stato più frequentato dalla carovana politica americana, cittadina dopo cittadina, ristorante dopo ristorante, fiera dopo fiera, tanto che una delle battute più comuni tra il suo milione e trecentomila abitanti, a proposito di questo o quel candidato, è “non lo conosco, gli ho parlato soltanto due volte”. Rudy Giuliani c’era sul palco del Saint Anselm College, l’università benedettina a pochi chilometri da Manchester. C’erano anche altri nove contendenti: John McCain, Mitt Romney, Mike Huckabee, Sam Brownback, Duncan Hunter, Jim Gilmore, Tom Tancredo, Ron Paul e Tommy Thompson. Tommy, non Fred, tanto che l’ex governatore del Wisconsin si è presentato al pubblico dicendo di essere “Thompson. Tommy. L’ex governatore, non l’attore”. Il vero Thompson, invece, Fred, sul palco del dibattito non c’era. L’attore della serie televisiva Law & Order e di molti film hollywoodiani dove interpreta sempre autorevoli ruoli di governo (presidente, capo dello staff della Casa Bianca, direttore della Cia, ammiraglio, giudice) s’è presentato in televisione, sulla Fox News, un minuto esatto dopo la fine del dibattito della Cnn, per annunciare l’avvio formale della sua candidatura, il lancio del sito web (Imwithfred.com) e provare a oscurare gli altri dieci contendenti. La giornata di martedì, per Fred Thompson, si era aperta nel modo migliore. Due sondaggi nazionali lo avevano visto balzare al secondo posto tra i repubblicani, dietro soltanto a Giuliani e con percentuali superiori sia a John McCain, il senatore dell’Arizona che è in campagna elettorale da sette anni, sia a Mitt Romney, l’ex governatore mormone del Massachusetts che ha già raccolto oltre 20 milioni di dollari. Il capo della campagna di Hillary, Mark Penn, ha detto al Foglio che “la candidatura di Fred Thompson è una cosa seria, con buone possibilità di successo”, in controtendenza rispetto a una certa sottovalutazione da parte del mondo liberal. Altri sostengono che il successo virtuale di Thompson sia il segnale del momento di crisi profonda del partito repubblicano, ridotto a prendere le distanze da un presidente con il 30 per cento di gradimento e costretto a scegliere tra un Giuliani che è pro-aborto, pro-gay, pro-controllo delle armi, un McCain che quattro anni fa l’avversario democratico di Bush, John Kerry, voleva nel suo ticket come candidato vicepresidente e Mitt Romney, che non è soltanto mormone, ma anche uno che – dall’aborto al matrimonio gay all’immigrazione – cambia idea a seconda delle persone che incontra. Thompson sembra poter colmare questo vuoto. Piace sia ai conservatori sia ai moderati perché è pro-life, ma senza toni da guerra culturale. Un segnale importante è quello captato tre giorni fa, quando si è saputo che a dare una mano a Thompson ci saranno Mary Matalin, già stratega di Dick Cheney, e George P. Bush, nipote del presidente e figlio dell’ex governatore della Florida, Jeb. Il vantaggio di Giuliani però sembra consolidato, per quanto possano valere i sondaggi a sei mesi dal voto. L’ultimissimo della Gallup, peraltro, dà l’ex sindaco di New York in vantaggio di sette punti, 52 per cento a 45 per cento, anche su Hillary Clinton (e Hillary appaiata a Barack Obama alle primarie democratiche). Gli strateghi della campagna di Giuliani – la sua consigliera politica Susan Molinari e il sondaggista Ed Goeas – dicono di non essere particolarmente preoccupati dalla discesa in campo di Thompson. Entrambi hanno spiegato al Foglio che l’arrivo di Thompson è più che altro un problema per McCain e Romney, prima ancora che per Giuliani. McCain e Romney sono i due candidati che si stanno giocando il ruolo di secondo, cioè di sfidante di Giuliani, e per questo battagliano soprattutto sulla questione dell’immigrazione clandestina, il tema più dibattuto dopo l’Iraq e la guerra al terrorismo. McCain, come Bush, è favorevole a un accordo con i democratici per avviare un processo di legalizzazione dei 14 milioni di clandestini che lavorano già in America. Romney è contrario, più in linea con il sentimento prevalente della base conservatrice del partito che, tra l’altro, su questo potrebbe scegliere tra due candidati monotematici, il deputato del Colorado, Tancredo, e l’ex sindaco di San Diego, Hunter. Il dibattito televisivo ha mostrato un Giuliani in grande forma, molto più presidenziale, preparato e concentrato rispetto alle due precedenti occasioni. Ha voluto dare l’impressione del “problem solver”, di quello che risolve i problemi, che fornisce la dritta giusta, del politico capace, efficiente, senza paura. La sua idea è che non sia in crisi la filosofia conservatrice, come sostengono gli anti Bush, ma che ci sia soltanto un problema di cattiva gestione, evidenziata dagli errori in Iraq, dal caos post uragano Katrina e dalla spesa pubblica fuori controllo. Il suo punto debole resta l’aborto, argomento su cui è sempre costretto a giustificarsi. Al dibattito, mentre ci provava per l’ennesima volta, un fulmine ha spento per un attimo il suo microfono. E lui: “Per uno che ha frequentato le scuole parrocchiali per tutta la sua vita, il fatto che sia successo proprio adesso è una cosa molto spaventosa”. Anche McCain e Romney sono andati molto bene, creando un vuoto con il resto del gruppo. Soltanto l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, è riuscito a emergere grazie a una serie di battute azzeccate e a una certa compostezza che secondo molti osservatori gli garantirà il posto da candidato vicepresidente di chiunque vincerà le primarie. Domenica sera, sullo stesso palco del Saint Anselm College, Hillary Clinton aveva detto che le differenze tra i democratici e i repubblicani sono enormi. Il confronto tra i due dibattiti le ha dato ragione. I democratici vogliono chiudere subito la vicenda irachena, ritirando le truppe anche a costo di non fornire un piano per il dopo. I repubblicani, con l’eccezione del folcloristico liberista Ron Paul, sostengono la strategia del generale David Petraeus. McCain e Romney non hanno mai fatto mancare le critiche alla gestione della guerra, ma sono convinti che il piano di Petraeus sia quello giusto. McCain e Giuliani, addirittura, non prendono in considerazione il ritiro dall’Iraq nemmeno se a settembre la relazione di Petraeus sullo stato della missione fosse negativa. Giuliani, infine, ha prontamente risposto “assolutamente sì”, alla domanda se ancora oggi ritiene che invadere l’Iraq sia stata la scelta giusta. “Siamo in una guerra vera”, ha ribadito Giuliani, l’unico ad attaccare direttamente i democratici e Hillary in particolare perché, ha detto, “non sono stati nemmeno capaci di pronunciare le parole ‘terrorismo islamico’ nel loro dibattito di domenica”. In generale, la differenza più grande è proprio questa: i repubblicani dicono che l’America è in guerra, i democratici no. Sull’Iran la di
fferenza è di toni. Tutti sostengono che non sia accettabile un Iran dotato di armi nucleari. I democratici non escludono nessuna opzione, nemmeno quella militare. I repubblicani, sollecitati da una domanda bellicosa del conduttore, userebbero anche armi nucleari tattiche per colpire le centrali sotterranee iraniane. Il più moderato dei due partiti è sembrato Fred Thompson. Nell’intervista tv ha proposto pari pari l’antica idea di Michael Ledeen di sostenere l’opposizione democratica, i sindacati, le radio indipendenti, aiutando gli iraniani a liberarsi da soli del loro regime. Thompson, inoltre, darebbe subito la grazia a Scooter Libby, l’ex capo dello staff di Dick Cheney, condannato per un reato commesso durante l’inchiesta sul Ciagate.
7 Giugno 2007