New York. Paul Berman è l’intellettuale di sinistra che all’indomani dell’undici settembre, nel suo appartamento del quartiere musulmano di Brooklyn, ha scritto “Terrore e Liberalismo”, uno dei saggi più influenti sul fondamentalismo islamico e le sue articolazioni politiche nel mondo arabo. La tesi di Berman, ben nota ai lettori del Foglio, era che quei regimi dispotici fossero l’ultima eredità delle ideologie totalitarie del Novecento, il fascismo e il comunismo, ovviamente rivedute e corrette alla luce della tradizione e della cultura coranica. Da qui l’origine della definizione “fascismo islamico” che a poco a poco è entrata nel lessico politico globale, sia pure – con grande rammarico di Berman e dei suoi ormai sparuti compagni liberal – più grazie alla destra che alla sinistra. L’attenzione di Berman su questi temi non s’è mai fermata e, di recente, ha scritto un lungo saggio su Tariq Ramadan, prima apparso sul magazine liberal The New Republic e poi, il 4 luglio scorso, sul Foglio.
Berman risponde alle critiche che ieri, su queste colonne, gli ha posto Mark Lilla, l’autore di “The Stillborn God”, un libro sui rapporti tra religione e politica. Intellettuale liberal, ma con precedenti e solidi flirt con l’ala straussiana dei neoconservatori, Lilla ha contestato a Berman sia la tesi di “Terrore e Liberalismo” sia, come la definisce lui stesso, la demonizzazione di Ramadan. Secondo Lilla, Berman sbaglia perché sostiene che il fondamentalismo islamico sia solo un’altra forma di fascismo, con una semplice foglia di fico teologica a coprire la sua vera essenza. Sicché gli imputa di “non riconoscere le specifiche passioni e motivazioni religiose che stanno alla sua base”. Berman risponde alla critica citando le primissime pagine del suo libro, dove scrive senza giri di parole di “non voler negare o ignorare nemmeno per un minuto le origini autenticamente musulmane e locali dell’impresa di Bin Laden”. Il punto di Berman, peraltro metodologicamente simile a quello del libro di Lilla, era che per comprendere a pieno il fenomeno islamista bisognasse guardare non solo a oriente, come si sono affrettati a fare tutti gli studiosi dopo l’undici settembre, ma anche a ovest, cioè a quelle culture, idee e filosofie, anche le più orribili, che in passato l’occidente ha malauguratamente esportato.
“Non è la prima volta che mi rivolgono l’accusa di aver sottovalutato la base religiosa dell’islamismo – dice Berman al Foglio – ma è una calunnia. Un terzo o un quarto di ‘Terrore e Liberalismo’ è dedicato allo studioso islamico Sayyid Qutb e alla sua lettura del Corano”.
La critica di Lilla, come ha riconosciuto lo stesso Berman, non è nuova. Da poco è uscito un libro del professor Stephen Holmes, “The Matador’s Cape: America’s Reckless Response to Terror”, in cui gli viene rivolta la stessa accusa, peraltro demolita da Peter Berkowitz sul numero in edicola di Policy Review. Berkowitz scrive che l’accusa a Berman di aver ignorato l’aspetto religioso del terrorismo non sta in piedi, visto che “il suo ragionamento è che l’estremismo islamico rappresenti una fusione tossica tra la fede religiosa musulmana e le idee europee derivanti dal pensiero fascista ed esistenzialista”. Anche Bernard Henry Lévy nel suo libro “American Vertigo”, e molti altri intellettuali spesso accusati di essere degli apologeti di George W. Bush, hanno compreso perfettamente l’argomentazione di Berman, peraltro più che chiara già nella definizione di “fascismo islamico”. Berman ha una spiegazione: “I miei critici dicono questo perché se avessi detto che l’islamismo è una dottrina strettamente laica, avrei ovviamente detto una cosa ridicola e, quindi, non ci sarebbe alcun motivo di confrontarsi con la mia tesi. Ma se, invece, avessi detto qualcosa di un po’ più sottile, avrebbero dovuto affrontare la mia tesi e discuterla, cosa che invece non vogliono fare”.
Lilla, infine, ha detto al Foglio che Berman ha “demonizzato” i cosiddetti rinnovatori islamici alla Tariq Ramadan. Berman rifiuta l’accusa: “Credo, invece, di aver preso Ramadan completamente sul serio, punto su punto. Lilla, Ian Buruma e altri dicono sempre che bisogna cominciare a discutere con Ramadan. Bene, ottimo. Chi ha cominciato questa discussione? Io l’ho fatto. Loro no. Cominciare a discutere non vuol dire sdraiarsi ai suoi piedi come un tappeto, significa prendere qualcuno sul serio sia per le cose buone che dice, sia per quelle cattive”.
31 Agosto 2007