La prima pagina del Giornale ipotizzata per raccontare gli attentati di Oslo, mai arrivata in edicola, è stata scritta attingendo all’immaginario comune che il prossimo 11 settembre compirà dieci anni. Le conclusioni affrettate e sbagliate, come hanno dimostrato le notizie delle ultime ore, sono figlie di una società solida. Il nostro sguardo è quello dell’informazione che guarda le torri cadere senza sapere perché certi fatti succedono. Fino a ieri la notizia ha vinto sulla narrazione di un periodo storico. Il sangue versato a Utoya cambierà l’informazione perché oggi tutti i giornalisti, non solo quelli norvegesi, dovranno fare pubblica ammenda e spiegare perché hanno sottovalutato il fondamentalismo che ieri ha ucciso più di 90 persone. Com’è possibile che nessuno di noi abbia deciso di approfondire un fenomeno su cui l’arte ha dedicato buona parte del decennio precedente?
Solo negli ultimi cinque anni sono usciti due film europei dedicati al tema. Il primo è il tedesco L’onda. La storia è quella di un professore che ai suoi studenti insegna le dittature simulando la nascita di un regime. Alla fine ci scappa il morto.
Il secondo è il danese Brotherhood, una storia d’amore gay vissuta in apnea. I baci tra due uomini sono le crepe di un panorama che ricorda American History X. Sulla pelle degli Stati Uniti, vale la pena ricordarlo oggi, sono state tatuate tutte le stragi collettive. Ad esse si è ispirato Gus Van Sant per l’anestetizzante Elephant.
L’ultima ora, il lutto e livore ci scivoleranno dalle mani. Nel sangue dovremo specchiarci. Solo allora capiremo che la contaminazione tra media e narrazioni è necessaria. Alle nuove generazioni dovremo spiegare un mondo che non si può riassumere in un tweet. Ai più giovani dobbiamo insegnare il birdwatching. Solo se capiranno che guardare dal basso verso l’alto è più utile di soffermarsi su un unico cinguettio noi avremo fatto il nostro lavoro e loro capiranno il mondo che devono aiutarci a migliore. Per me. Per te. Per tutti.
Colonna sonora: Blackbird dei Beatles