Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoIl consultorio familiare ovvero un ferito ai margini della strada

In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è...

In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è il problema dei tanti bambini e ragazzi destinati a non diventare del tutto uomini o donne, cioè dei tanti bambini nati malformati, sordomuti, ciechi, per colpa di una mancata assistenza pre e post natale alla madre, o dei bambini cosiddetti “istituzionalizzati”, cioè privati di quell’affetto necessario alla loro crescita, o ancora dei bambini violentati, non scolarizzati o avviati alla delinquenza e preda delle mafie. Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi, di fatto, “abortiti” per colpa della società e dello stato. A questo proposito, dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.

Il consultorio familiare venne istituito nel 1975 (anche se le prime proposte risalivano al lontano 1949), con la legge 405, grazie al movimento delle donne che lo aveva fortemente voluto, e alla convergenza dei partiti di allora, cattolico, socialista e comunista. Si trattava di un presidio pubblico con la finalità di assicurare informazione, consulenza e assistenza psicologica, sanitaria e sociale su argomenti fondamentali per le coppie e per le famiglie, cioè maternità, paternità, procreazione responsabile e salute sessuale. Con la legge 194 del 1978, poi, le competenze del consultorio inclusero anche l’assistenza all’aborto.

Fino a quel momento, gli unici centri di sostegno per queste problematiche regolarmente funzionanti erano stati solo quelli privati, con forti connotazioni religiose. I primi consultori prematrimoniali esistenti in Italia, infatti, erano sorti per iniziativa di alcuni sacerdoti o laici d’ispirazione cattolica, riuniti nel Ucipem (Unione Consultori Italiani Matrimoniali e Prematrimoniali), a cui erano poi seguiti consultori di gruppi volontari, di indirizzo politico diverso, come quelli dell’Aied (Associazione internazionale Educazione Demografica), del Cemp (Centro per l’Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale), e del Ced (Centro Educazione Demografica), che tendevano, per lo più, a favorire la conoscenza dei mezzi anticoncezionali. Fino a quel momento, le funzioni dei nascenti consultori, soprattutto dopo la soppressione dell’Onmi (Opera Nazionale per protezione Maternità e Infanzia) e dei servizi gestiti dal ministero della Giustizia, erano state delegate alle Regioni, anch’esse peraltro di recente nascita. La difficoltà organizzativa dei consultori si affiancava all’insufficienza delle istituzioni sanitarie del paese e spesso anche alla mancanza di un’adeguata specializzazione dei medici preposti. Sia l’assistenza alla coppia e alla famiglia, quanto le tecniche psicologiche e mediche finalizzate al controllo delle nascite, non potevano essere svolte con coerenza perché demandate a norme legislative regionali diverse.

La legge che faceva nascere il consultorio familiare pubblico metteva di fronte la capacità dello stato di gestire un problema di tale portata e l’attaccamento della Chiesa alla gestione delle problematiche relative alla famiglia, secondo la propria reiterata tradizione secolare. Si trattava, dunque, di un primo importante banco di prova e di un’occasione preziosa per cominciare un discorso di crescita, non solo a livello di organizzazione sociale, ma anche a livello dei rapporti tra società religiosa e società civile.

Quando nacque, il consultorio scontava subito tutta l’inadeguatezza della legge e delle strutture organizzative italiane: finì per essere gestito dai rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, figure, con tutta evidenza, troppo burocratizzate per poter assolvere alla loro funzione specifica, a scapito dunque del diretto coinvolgimento della società, cioè a dire delle famiglie, delle coppie e in particolare della donna. A questi meccanismi si provò ad affiancare, inizialmente, il volontariato, con la presenza, nel consultorio di donne che informavano e discutevano le varie problematiche relative alla vita sessuale della coppia. Ma una soluzione di questo tipo, se pure utile, non poteva che ritenersi provvisoria e monca. Permanevano, inoltre, enormi differenze tra le diverse regioni. In sostanza, si disse molto all’italiana, i consultori sarebbero diventati ciò che la politica e la società li avrebbero fatti diventare.

Vediamo allora, dopo 35 anni, cosa sono diventati. Dalla metà degli anni ottanta, il numero dei consultori familiari pubblici era continuato a crescere, nonostante la mancanza di un miglioramento della funzionalità e del livello del servizio offerto. Nel 1979, cioè un anno dopo l’approvazione della legge sull’aborto, erano circa 600 quelli pubblici e poco più di 200 quelli privati; nel 1981 si era passati ad un rapporto di 1456 contro 167. Nel 2006 il numero dei consultori notificato era pari a 2188 per quelli pubblici, mentre si erano ancora ridotti, a 103, quelli privati. Ma veniamo all’oggi.

Di recente il ministero della Salute ha pubblicato il primo rapporto nazionale sui consultori familiari pubblici presenti in Italia. La situazione è a dir poco preoccupante. Solo in poche regioni le Asl prevedono un capitolo di bilancio ad essi adibiti, ma più in generale, non hanno alcun interesse a valorizzare i consultori, come dimostra il mancato adeguamento delle risorse e degli organici. Il numero dei consultori è passato dai 2097 del 2007 ai 1911 del 2009, con un consultorio ogni 31 mila abitanti circa, contro un valore legale stabilito per legge di 1 ogni 20 mila in area urbana e 1 ogni 10 mila in area rurale. Mancherebbero all’appello, dunque, almeno 1000 consultori. Inoltre, la legge prevede un organico multidisciplinare, con figure professionali come ginecologo, pediatra, psicologo, ostetrica, assistente sociale, sanitario, consulente legale, infermieri. Nel rapporto si legge invece che solo nel 4% dei casi è coperto l’organico, in particolare l’andrologo è assente in tutti in consultori pubblici nazionali (ad eccezione che in Valle d’Aosta). La legge prevede che il consultorio disponga di locali per l’accoglienza utenti, la segreteria, la consulenza psicologica e terapeutica, le visite ginecologiche e pediatriche, le riunioni, l’archivio, mentre la realtà dice che il 15% dei consultori ha solo 1-2 stanze, ben 440 consultori non hanno una stanza per gli incontri di gruppo, ed addirittura 634 non possono inviare e ricevere mail. Inoltre il 9% dei consultori è aperto la mattina solo uno o due giorni a settimana e il 7% non risulta mai aperto la mattina, mentre il 14% non è mai aperto neppure il pomeriggio, mentre il sabato mattina è chiuso l’86% dei consultori italiani. Quanto ai contenuti, l’assistenza alla gravidanza è praticamente inesistente mentre il percorso prematriomoniale è fornito solo in tre regioni.

Per completare il quadro è bene ricordare che i consultori matrimoniali familiari fondati sul cosiddetto sul “counselling” (cioè sulla consulenza come relazione di aiuto tra consulente e coppia) risalgono alla fine degli anni Venti negli Stati Uniti, ed hanno avuto, da allora, un considerevole sviluppo in numerosi stati europei, in particolare in Inghilterra (1946), nei paesi scandinavi (1952), poi in altre nazione come Austria, Irlanda, Malta, Francia, Svizzera, Germania etc. Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta i consultori hanno poi avuto ampia diffusione e riconoscimento in quasi tutti gli stati dell’Europa occidentale e infine, anche da noi.

E’ evidente che, oltre ad essere arrivati ancora una volta per ultimi a questo servizio di base per la cultura della famiglia e delle coppie, ci troviamo ancora oggi ad un livello di funzionalità e di fruibilità del servizio assolutamente inadeguato, se paragonato a quelli degli altri paesi. Non ci stancheremo mai di ricordare e di ripetere, dunque, che è su questi argomenti che si misura il grado di civiltà di uno stato. Forse, al di là delle fumose affermazioni di principio, è il caso che il governo tecnico di recente formazione inizi proprio col mettere mano a inadempienze e inadeguatezze come questa per meritarsi la nostra stima e la nostra simpatia.

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