Larry Clark – Tulsa, 1963-1971
Oggi condividere le proprie foto personali con il mondo è normale.
Asserire la propria individualità è ormai diventato mainstream.
Esiste un totale senso di libertà nella condivisione della propria vita privata, soprattutto per le giovani generazioni, se infatti molti di noi badano ancora a mettere dei paletti su chi può visionare le foto pubblicate su facebook (tipo la famiglia, I “veri amici”, I conoscenti, ecc…) i profili dei ventenni sono generalmente aperti e visibili dal mondo.
Se non bastasse facebook a nutrire le nostre smanie esibizionistiche e voyeuristiche ci sono myspace, flickr, youtube, infiniti blog e migliaia di visual diaries di giovani fotografi e non che pubblicano on-line I loro scatti più intimi e personali in una sorta di diario fotografico.
Probabilmente non ci pensiamo ma fino a dieci anni fa le uniche foto di feste di gente “normale” (non celebrities) che vedevamo erano quelle degli amici stretti o di qualche artista nelle gallerie d’arte, insomma non era facile osservare fotografie di gente sconosciuta “normale”, di come si vestivano, ecc…
Anche I nostri Blackberry e Iphones sono oggi provvisti di facilissimi meccanismi per “sherare” i nostri snapshots con il mondo.
Chissà cosa avrebbe detto il caro Marshall McLuhan, che già nel 1960 preconizzava il villaggio globale, riguardo gli effetti di queste nuove tecnologie sulla nostra struttura mentale.
Sicuramente siamo sempre più consapevoli della nostra immagine, della sua importanza come animali sociali, e di come l’identità possa essere non solo comunicata ma “creata”.
Non siamo più vergini quando ci fanno una qualsiasi foto in un qualsiasi posto, o per lo meno sempre meno, forse in realtà lo snapshot non esiste più.
Ma, where did it all begin?
Sicuramente quando Larry Clark nel 1971 pubblica Tulsa, foto così non se ne erano viste molte.
Quello di Clark è un diario-reportage dei suoi amici tossici a Tulsa, Oklahoma.
Sono foto scattate nell’arco di otto anni, molto crude: gente che si buca, violenze, sesso, eppure guardando le immagini non si ha mai la percezione di un’intrusione da parte della macchina fotografica, probabilmente tutto sarebbe accaduto nello stesso identico modo anche se non fosse stato fotografato e questa verità è evidente nelle fotografie di Clark.
Anche Nan Goldin, che ho avuto la fortuna di intervistare, è stata fra i primi a utilizzare la fotografia come una forma di “diario in pubblico”, documentando la propria vita e quella della sua famiglia allargata di amici, spesso tossici, transessuali. Le immagini di Nan sono terribilmente autentiche, prive di costruzioni.
Nan Goldin – Misty and Jimmy Paulette in a Taxi, NYC – 1991
Questa autenticità per Clark come per Goldin credo che derivi proprio dal fatto di essersi messi in gioco loro stessi fino in fondo, non turisti nelle vite e disgrazie degli altri ma permanent residents.
Nei primi anni ’90 con altrettanta autenticità si distingue il lavoro del tedesco Wolfgang Tillmans che, cresciuto negli anni 80, documenta il cambiamento radicale della musica, lo stile, le droghe, i costumi sessuali della scena giovanile in Europa.
Wolfgang Tillmans – Stiefelknecht II – 1993
Poi nei primi anni ’00, anticipando quella che da lì a poco sarebbe stata il boom del fenomeno “visual diaries” un allora appena ventenne Ryan McGinley si impone sulla scena artistica con le sue immagini dirette, vere, autobiografiche senza mai essere narcisistiche in cui ci mostra il suo milieu, quello gay newyorkese, di artisti, skateboarders, graffittari con immagini dove il suo “essere parte di” è evidente.
Ryan McGinley – Highway – 2007
Visto che il denominatore comune, ciò che ci fa apprezzare tutti questi lavori nel tempo è la loro riconoscibile autenticità, il rischio in quest’era sempre più self conscious da un punto di vista dell’immagine è dell’esaurimento dei soggetti fotografabili, causa la perdita dell’innocenza, della spontaneità.