Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato una magistrale lettera del senatore Pietro Ichino riguardo lo stabilimento Fiat di Pomigliano e l’inganno perpetrato da certa sinistra nei confronti delle giovani generazioni, indotte a demonizzare l’operato di Sergio Marchionne e il progetto di modernizzazione in corso nella fabbrica campana. Il giuslavorista, ideatore di un’autorevole proposta di flexicurity per riformare il mercato del lavoro, sottolinea che – a detta degli stessi dipendenti – le retribuzioni e le condizioni di lavoro nell’impianto di Pomigliano sono esponenzialmente migliorate dal via al progetto Fabbrica Italia.
Eppure la Fiom-Cgil, esclusa dalla rappresentanza sindacale per il suo rifiuto di siglare qualsiasi contratto collettivo applicato dalla Fiat, percepisce Pomigliano e il manager che ne ha di fatto permesso la riqualificazione come una minaccia per i lavoratori italiani. Sarebbe ingenuo credere l’attività dei sindacati priva di caratteri ideologici, con i quali si offre troppo spesso ai lavoratori una narrazione falsa e nocivamente retrograda della realtà; ad ogni modo fare populismo può garantire consensi, ma opporsi a condizioni che promuovono il benessere dei lavoratori significa perdere di vista la ragion d’essere dell’attività sindacale.
In tema di flessibilità e abrogazione dell’articolo 18, al coro dei sindacalisti critici verso la linea Ichino si aggiunge poi Nichi Vendola, che ne fa una battaglia culturale contro il dilagare dell’ideologia liberista; un dilagare, peraltro, che lui solo scorge. Il leader di Sel, durante l’assemblea generale del partito tenutasi la scorsa settimana, ha sostenuto la necessità in controtendenza di estendere la tutela dell’articolo 18 a tutti i lavoratori, dimostrando di non avere alcuna intenzione di abbandonare quel massimalismo di sinistra così vetusto ed estraneo alle moderne logiche del mercato del lavoro. D’altronde è utopico pretendere che il leader pugliese rinunci a larga parte del suo consenso elettorale per un atto di pragmatismo e modernità.
Chiaramente Vendola non è solo: ad accompagnarlo da sinistra nell’operazione di tutela di un privilegio anacronistico che si alimenta sulle spalle del precariato vi è una frangia piuttosto consistente del PD, capitanata da Stefano Fassina, e l’intero partito di Antonio Di Pietro.
Giunti a questo punto, in funzione del voto sulla proposta del ministro Fornero e dei futuri equilibri elettorali, il centrosinistra è chiamato a risolvere quelle contraddizioni interne che lo rendono una forza politica a due velocità: l’una – quella di Ichino – proiettata verso il futuro, pragmatica e riformista; l’altra – quella massimalista – affezionata alla retroguardia, arroccata su posizioni che Raymond Aron non esiterebbe a bollare come “oppio dei lavoratori”, mutuando la sua immagine del marxismo come oppio degli intellettuali che inquadra così bene le figure dei vendoliani.
Con un centrodestra screditato e un terzo polo senza numeri, il compito di decidere cosa fare da grande, in definitiva, spetta al PD: vincere le elezioni con una linea che consenta di governare il presente o andare al governo con una formazione di rottura che punti a riformare lo status quo, laddove gli slogan berlusconiani non sono riusciti per quasi un ventennio.
Daniele Venanzi