Keynes BlogFlessibilità e riduzione dei salari non faranno crescere la produttività

Ogni volta che l'Eurostat o l'OCSE aggiornano le proprie stime, i giornali si riempiono di grafici che mostrano come i salari degli italiani siano tra i più bassi d’Europa. La ragione di ciò viene ...

Ogni volta che l’Eurostat o l’OCSE aggiornano le proprie stime, i giornali si riempiono di grafici che mostrano come i salari degli italiani siano tra i più bassi d’Europa. La ragione di ciò viene imputata alla nostra “bassa produttività”, cercando però di non spiegare i reali motivi del gap, ben noti alla letteratura economica, ma si cerca di far passare l’idea che gli Italiani lavorino poco o male. Da una parte vediamo letture volutamente parziali e ideologicamente segnate (la colpa sarebbe del “troppo Stato” che per di più “funziona male”) e dall’altra delle vere e proprie invenzioni senza alcuna base scientifica (del tipo: “i lavoratori italiani sono scansafatiche e i sindacati li difendono”) tese a nascondere le responsabilità pubbliche e private.

Apparentemente c’è un consenso unanime nelle risposte che vengono fornite per spiegare le cause dei problemi dello sviluppo italiano: la produttività del nostro paese ha da tempo iniziato a perdere colpi, divenendo la causa principale di un progressivo rallentamento della crescita del Pil. Da tempo l’Italia cresce a tassi inferiori alla media europea, e da quest’ultima sempre più divergenti (non meno di un punto e mezzo percentuale). I più parlano di quindici anni, altri di venti anni. A ben vedere è dalla seconda metà degli anni Ottanta che l’Italia ha incominciato a rallentare. In ogni caso si tratta di un periodo lungo. Fino a qualche tempo fa le voci che parlavano di “declino” (la Cgil lo fa da 10 anni ormai) venivano immediatamente tacciate di disfattismo (“i ristoranti sono pieni, abbiamo tre telefonini a testa…”).

Anche i più illuminati, quelli che non si foderavano gli occhi di prosciutto per motivi politico-elettorali, ostentavano ottimismo, parlando di “upgrading”, ovvero di un processo di modernizzazione spontaneo del tessuto produttivo italiano, a volte infarcendo i loro commenti con elogi alla secolare inventiva italica, citando qualche caso d’eccellenza.
Nel 2008 scoppia la crisi internazionale. Dal 2010 l’incapacità dell’Italia di recuperare fa giustizia degli ottimismi, siano essi interessati o ingenui. Ci si accorge che da tempo l’Italia non cresce ed esibisce performance di sviluppo sistematicamente peggiori dei paesi ad essa comparabili. Coloro che prima guardavano con ottimismo all’upgrading qualitativo delle imprese, sono giocoforza spinti a ricercare i motivi della stagnazione in quei fattori che, rispetto agli altri paesi europei, impedirebbero una gestione della situazione di crisi.
Ed ecco spuntare il tema della produttività che, in quanto “causa strutturale” della ridotta dinamica di crescita del reddito del paese, diventa protagonista della scena. Ma il modo in cui si pensa di risolvere il problema denuncia che non se ne sono comprese le cause o, meglio, che non si vogliono affrontare, preferendo scegliere scorciatoie tutte a carico di chi non ha certo visto accrescere il suo potere nei decenni scorsi: i lavoratori.

La bassa produttività viene fatta dipendere da una presunta inefficienza del lavoro, sostenendo che è di questo ci si debba occupare affinché il “motore dell’economia” possa riprendere a girare a pieno regime. Si badi che non si tratta di boutade di qualche politico, ma di un preciso indirizzo portato avanti tra gli altri da illustri accademici. Pietro Ichino, Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Luigi Zingales e, ovviamente, Mario Monti ed Elsa Fornero sono tra i principali protagonisti di questa campagna che punta a par passare l’idea che dobbiamo “lavorare di più” (meno pause, meno ferie, niente feste comandate) e “lavorare meglio” (le aziende hanno bisogno di flessibilità, e poi che noia il posto fisso). Il modello Marchionne diventa l’esempio da seguire e trova poca o nessuna resistenza nel mondo politico e persino sindacale.

Se non fosse che le cose così non stanno. Anzi, la scure che si abbatte sui lavoratori non solo assume una forma lesiva di diritti e tutele basilari (tra cui la stessa rappresentanza sindacale), ma non è risolutiva del problema della produttività di cui soffre l’Italia. Al contrario, l’unico effetto che si avrà (non curando le cause reali) sarà quello di far scivolare ulteriormente il reddito di quelle classi sociali a più alta propensione al consumo, alimentando la spirale recessiva: sempre maggiori contrazioni della domanda aggregata, alimentate tanto da un aumento della disoccupazione, quanto da pressioni verso il basso dei salari che la precarizzazione del mercato del lavoro tende a produrre.

Dov’è, dunque, che si gioca la reale partita della produttività, e quali sono in questo senso i problemi strutturali dell’economia italiana, che le impediscono di crescere al pari degli altri paesi europei?
La dinamica della produttività di un paese esprime la capacità che questo ha di produrre reddito. La produttività non è banalmente una sorta di misura “standardizzata” del ritmo di lavoro come vorrebbe far credere chi parla di inefficienza dei lavoratori. E’ invece legata al lavoro nella misura in cui questo si relaziona al contesto produttivo in cui esso opera, nel quale debbono essere annoverati la dotazione di capitale, la tecnologia utilizzata, e l’organizzazione data al processo produttivo. Anche con riferimento alla singola impresa, la produttività è legata al contesto di sistema – cioè al resto del sistema produttivo, alle infrastrutture, ecc. – e soprattutto al valore di ciò che si produce che deve essere preso a riferimento.
Passando all’intero sistema produttivo, il concetto si rafforza. Il sistema economico è strutturato in base agli scambi che avvengono tra i diversi settori, ed è l’insieme di queste interazioni che ne determina la capacità di produrre reddito, e dunque la sua produttività complessiva. La misura della produttività (in valore) è in generale molto diversa da settore a settore, ma ciò che conta è il risultato finale. Nelle economie avanzate, nelle quali si è assistito ad una straordinaria crescita del settore dei servizi, l’asimmetria relativa ai valori della produttività è persino cresciuta a sfavore di questi ultimi, ma è vero al tempo stesso che i servizi, ed in particolare quelli a “maggior contenuto di conoscenza”, hanno registrato una maggior crescita proprio in quei paesi che maggiormente hanno innovato il proprio sistema produttivo. In questi paesi è stata approfondita una specializzazione manifatturiera in comparti a medio–alta tecnologia che ha sostenuto a sua volta la domanda di servizi innovativi innescando un circuito virtuoso.

La verità è che i paesi che hanno realizzato più elevati tassi di sviluppo, e che mantengono strutturalmente potenziali di sviluppo più elevati, sono quelli che hanno saputo dar vita a nuove “catene del valore economico”, in cui è preminente il ruolo dei processi di innovazione con l’obiettivo di soddisfare una domanda che, col crescere del reddito pro-capite, si è profondamente evoluta e trasformata, tendendo a soddisfare bisogni di qualità più elevata (non ultimi quelli collegati alla salvaguardia dell’ambiente). Questo è vero in Europa non solo per i maggiori paesi (Francia, Germania, Regno Unito), ma anche per le economie più piccole, tipicamente quelle del Nord Europa e scandinave.
Per meglio comprendere il complesso rapporto tra innovazione e produttività conviene lasciare la parola a Paolo Sylos Labini ,che del rapporto tra sviluppo e innovazione fece uno dei capisaldi della sua riflessione economica:

“Mentre per definire le variazioni della produttività del lavoro per i beni già esistenti non sorgono particolari problemi interpretativi, tali problemi sorgono invece nel caso di nuovi beni. In che senso si può dire che aumenti la produttività se compare un nuovo bene, che soddisfa più efficacemente bisogni già prima soddisfatti o soddisfa bisogni prima non soddisfatti per nulla? Non riesco a dare una risposta precisa univoca. Credo che gli economisti debbano approfondire criticamente i criteri che gli statistici economici adottano quando decidono di includere nelle stime del reddito nazionale i nuovi beni. L’indice non è e non può essere preciso; ma non sembra ci siano alternative”

Paolo Sylos Labini (2004), Torniamo ai classici, Laterza, Bari.

Da tutto ciò ne discende che se per incentivare lo sviluppo si intende applicare la ricetta del “legare i salari alla produttività” anche al ribasso, come certa propaganda di marchio liberista ama ripetere, si commette un errore colossale, con conseguenze per il nostro paese fortemente depressive sulla stessa capacità di sviluppo.
La tendenza decrescente della nostra produttività è legata infatti a una profonda inefficienza di sistema, essendo i settori industriali centrati su un profilo a “medio-bassa” intensità tecnologica e su servizi di conseguenza meno innovativi. Il paese non è così competitivo sui mercati esteri, mentre tende ad importare produzioni avanzate per il soddisfacimento della propria domanda interna, accumulando un deficit commerciale che dà luogo a un vincolo estero che frena a sua volta il potenziale di crescita del reddito. Se a tutto questo si somma l’effetto di riduzione sui salari che sarebbe determinato dal fiacco andamento della produttività, si ottiene un ulteriore effetto depressivo sulla domanda interna e quindi sulla crescita (con scarsi effetti sull’allentamento del vincolo estero, peraltro, come dimostrano le tendenze di questi ultimi anni nei quali la domanda interna è stata stagnante). E la spirale che ne deriva non può che essere recessiva, se il criterio rimane quello di legare i salari alla produttività.

Il problema della specializzazione produttiva è quindi centrale. Sostenere che le imprese italiane non investono in ricerca è sbagliato se riferito alle singole imprese, mentre è vero se riferito al “sistema Italia”. Questo perché quelle imprese che sono presenti nei settori avanzati hanno performance di ricerca comparabili con imprese dello stesso tipo all’estero. Ma se si guarda al complesso delle spese in ricerca sostenute dalle imprese italiane, questo appare assai deficitario in ragione dello sbilanciamento della specializzazione produttiva in settori meno avanzati.
Sperare in una ripresa del ciclo internazionale che operi per la crescita del paese come una sorta di “deus ex machina”, è del tutto illusorio. Difatti nei periodi di crescita dell’economia internazionale (si veda ad esempio il ciclo espansivo avutosi tra il 2002 e il 2005) l’Italia ha evidenziato le più ampie divergenze dalla crescita dei maggiori paesi europei, poiché la dinamica della domanda globale accelera nei settori più innovativi.

Non basta quindi aggrapparsi alla speranza di una ripresa della domanda dall’estero, anzi. Occorre invece da subito programmare una massiccia dose di investimenti innovativi, compito che nella situazione attuale del ciclo economico e in considerazione della estrema parcellizzazione del capitale in Italia, deve essere primariamente dello Stato (e dell’Unione Europea).
E’ invece folle continuare a far leva sul costo del lavoro per rendere la nostra produzione più competitiva. E’ folle per i motivi che abbiamo già detto e lo è per le evidenze empiriche che assegnano al nostro paese, contemporaneamente, uno dei maggiori tassi di flessibilità (dati Ocse sull’indice EPL) e tra i minori tassi di crescita, valore aggiunto, ricerca, innovazione.

L’Italia ha iniziato a perdere il treno dell’innovazione sin dalla seconda metà degli anni ’80, quando le condizioni di quel periodo rendevano possibile il successo della piccola impresa distrettuale. Oggi, in un periodo nel quale i processi innovativi hanno preso da tempo la strada della globalizzazione e anche i paesi emergenti stanno creando piattaforme produttive sempre più centrate su settori ad alto contenuto di conoscenza, il ritardo strutturale di sviluppo del paese si è fatto enorme, anche per l’assenza, da troppo tempo, di politiche industriali alle quali altrove in Europa si è fatto invece ampio ricorso.
Ma è anche discutibile che a tutto questo non si possa iniziare a porre riparo.

Occorre quindi arrestare le politiche depressive sui redditi dei lavoratori e di liberalizzazione del mercato del lavoro (che conferiscono anche un’ulteriore spinta al ribasso dei salari) perché direttamente controproducenti rispetto alla domanda e spiazzanti rispetto alle priorità. Al contrario, occorre reperire risorse da investire nel sistema produttivo (e parallelamente formativo) attingendo dalla ricchezza patrimoniale, tassando le rendite, favorendo processi di innovazione nuovi ma anche agendo affinché le competenze tecnologiche già presenti nel paese si applichino progressivamente a settori nuovi con elevati potenziali di crescita. Si può fare, ma perdere altro tempo avrebbe conseguenze disastrose non solo in un indefinito lungo periodo, ma qui e ora.

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